Abrogazione dell’abuso d’ufficio: la memoria con cui la Procura di Reggio Emilia, nel processo Bibbiano, ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale
Procura di Reggio Emilia, memoria difensiva, 9 settembre 2024
Sostituto Procuratore Dott.ssa Valentina Salvi
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico e giuridico della vicenda (relativa al processo per presunti affidi illeciti), la memoria con cui la Procura di Reggio Emilia ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale in punto di abrogazione del reato di abuso d’ufficio.
Le posizioni delle difese – che hanno chiesto di dichiarare la questione inammissibile – sono state riportate da alcuni organi di stampa, tra i quali Il Dubbio (link all’articolo).
La memoria prende le mosse ricordando come nel procedimento penale vi siano anche imputazioni di relative al reato di cui all’art. 323 c.p. e come, a seguito dell’entrata in vigore della Legge 9 agosto 2024, n. 114, «il Tribunale avrebbe l’onere di dichiarare il “non doversi procedere ex art. 129 c.p.p.”, trattandosi di fatti non più previsti dalla legge come reato». Scenario, quest’ultimo, che sarebbe invece evitato, laddove «attraverso l’instaurando giudizio di legittimità costituzionale, la predetta abrogazione tout court fosse considerata contraria al testo costituzionale», realizzandosi, in tal caso, la «la “riespansione” della rilevanza penale del comportamento oggetto del reato di abuso d’ufficio con la contestuale prosecuzione, dunque, del processo già in corso, al fine di accertare in dibattimento la sussistenza del reato contestato agli imputati».
Ad avviso della Procura, «la rilevanza della questione non appare in alcun modo pregiudicata dalla circostanza che attraverso l’instaurando giudizio di legittimità costituzionale si miri ad ottenere una “riviviscenza” di una norma penale abrogata e che, dunque, l’oggetto del giudizio sia rappresentato da norme penali di favore nonché di norme abrogative di ipotesi delittuose», essendo «contraria alle fondamenta stessa dello Stato di Diritto fondato su principi costituzionali» la possibilità che le suddette norme penali possano sfuggire al controllo di costituzionalità, «precludendosi, di tal guisa, di poter garantire la preminenza del testo costituzionale sulla legislazione statale ordinaria».
Nella memoria difensiva si richiamano recenti decisioni della Corte costituzionale, tra le quali la sentenza numero 37/2019, attraverso la quale la Corte «ha delineato, in maniera esaustiva e nel dettaglio l’intera materia, partendo dal principio generale di esclusione di intervento e indicando, di contro ed in deroga, i precisi ambiti in cui il sindacato costituzionale risulta invece pienamente ammissibile a fronte della necessità di evitare la sussistenza di “zone franche” rispetto alla vigenza dei principi costituzionali».
In quest’occasione, la Corte ha ricordato che se è vero che, «in linea di principio, sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale che concernano disposizioni abrogative di una previgente incriminazione, e che mirino al ripristino nell’ordinamento della norma incriminatrice abrogata», è anche vero che «tali principi non sono senza eccezioni».
Tra queste, «può venire in considerazione la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole».
In altri termini – continua la memoria richiamando sempre la sentenza della Corte costituzionale – «un controllo di legittimità con potenziali effetti in malam partem deve ritenersi ammissibile quando a essere censurato è lo scorretto esercizio del potere legislativo (…) e, in tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata»; lo stesso discorso vale qualora «si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost., ove l’effetto di ripristino della vigenza delle disposizioni penali illegittimamente sostituite in sede di conversione di un decreto-legge, con effetti in parte peggiorativi rispetto alla disciplina dichiarata illegittima, fu motivato anche con riferimento alla necessità di non lasciare impunite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione».
In punto di non manifesta infondatezza della questione, nella memoria vengono richiamati, come parametri costituzionali:
– l’art. 3 Cost., «nella sua declinazione avente ad oggetto la disparità di trattamento sanzionatorio rispetto a fattispecie analoghe a quella abrogata se non addirittura connotate, rispetto a quest’ultima, anche di un minor disvalore (a ciò in assenza di qualsivoglia criterio sotteso alla ragionevolezza della suddetta “discriminazione”)»;
– l’art. 97 Cost., il quale rileverebbe da due punti di vista: «i) il primo è che, stante la pacifica natura plurioffensiva del reato di cui all’art. 323 c.p., il legislatore avrebbe così lasciato alla sola iniziativa privata (del terzo danneggiato, tra l’altro solo eventuale) la tutela di un bene giuridico pubblico e collettivo sottratto alla disponibilità del privato medesimo; ii) il secondo è che, nel caso in cui la condotta “contra legem” del pubblico amministratore ovvero quella posta in essere in “conflitto di interessi”, anziché provocare un danno al terzo lo abbia invece ingiustamente favorito, nessuno dei due (in assenza o all’insaputa di eventuali competitors), avrebbe alcun interesse ad esercitare un’azione volta a dichiarare illegittima quella condotta, con ciò determinando un implicito sacrificio di un bene giuridico di rango costituzionale nonostante quest’ultimo, ex sé, trascenda i rapporti tra i due soggetti coinvolti dal provvedimento amministrativo ed investa gli interessi dell’intera collettività».
– l’art. 24 Cost., dal momento «la completa abrogazione del reato di cui all’art. 323 c.p. postula l’abrogazione anche del cosiddetto “abuso di danno” ossia la condotta prevaricatrice del pubblico ufficiale, contra legem ovvero in omessa astensione di conflitto di interessi, intenzionalmente diretta a provocare un danno al privato», così essendosi creato un «vuoto di tutela che, sul piano penale, non può essere colmato sic et simpliciter da altre fattispecie; in altri termini, abrogato l’art. 323 c.p., condotte di favoritismi e sfruttamento di un interesse privato nel pubblico ufficio, restano, a scapito del soggetto terzo danneggiato, prive di tutela penale e, tra l’altro, anche di tutte le norme di carattere processual-penalistico che ne garantiscono l’accertamento».
– l’art. 117 Cost., ponendosi l’abrogazione tout court dell’abuso d’ufficio «in contrasto con gli obblighi assunti dallo Stato italiano sia in ambito comunitario europeo sia in ambito internazionale».