CONTRIBUTIDiritto Penitenziario

Dal riconoscimento del “diritto al cielo” alla preclusione alla “pasticceria fresca”: due modi di intendere il 41-bis O.P.

in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 10 – ISSN 2499-846X

Le due ordinanze oggetto di questo commento si concentrano su aspetti specifici che mettono in luce i limiti e le potenziali violazioni che l’applicazione del carcere duro può comportare, in termini di compressione del diritto alla salute psicofisica dei detenuti e di incidenza sulla dignità delle persone.

Il primo è un provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Bologna (ord. n. 3441/2024), il quale ha affrontato la questione del diritto dei detenuti al rispetto delle condizioni di detenzione minime, con un focus sull’accesso di luce naturale e di sufficiente aereazione all’interno delle celle e sull’adeguatezza degli spazi in cui svolgere attività fisica durante il ristretto tempo riservato a tale fine.

Il secondo è, invece, un provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia (ord. n. 3305/2024) che tratta una questione, apparentemente minore, ma comunque rilevante per la tutela della dignità personale dei detenuti, ossia il diritto alla somministrazione di pasticceria fresca.

In entrambe le decisioni emerge la necessità di trovare un delicato equilibrio tra l’esigenza di tutelare la sicurezza pubblica, da una parte, e, dall’altra, la necessità di garantire che le restrizioni imposte non degenerino in trattamenti disumani e degradanti, in violazione dei diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, all’art. 27, e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, agli artt. 3 e 8.

Con l’ordinanza n. 2024/3441, il Tds di Bologna ha definito il reclamo di un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis o.p., il quale aveva richiesto di essere spostato al primo o secondo piano dell’edificio carcerario, lamentando, in primo luogo, la carenza di illuminazione e aerazione naturale nella cella di pernottamento, a causa di un muro posizionato a pochi metri dalla finestra ed, in secondo luogo, le dimensioni particolarmente ridotte del cortile di passeggio, con conseguente impossibilità di svolgere attività sportive.

Con riferimento alla prima questione, la disciplina prevista dall’art. 6 l. 354/1975, stabilisce il diritto del detenuto a vivere all’interno di locali «di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati e riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono (…)».

Nella stessa direzione si muove la disposizione di cui all’art. 6 del decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 30 giugno 2000, la quale prevede che «I locali in cui si svolge la vita dei detenuti (…) devono essere igienicamente adeguati. Le finestre delle camere devono consentire il passaggio diretto di luce e aria naturali. Non sono consentite schermature che impediscano tale passaggio. Solo in casi eccezionali e per dimostrate ragioni di sicurezza, possono utilizzarsi schermature, collocate non in aderenza alle mura dell’edificio, che consentano comunque un sufficiente passaggio diretto di aria e luce».

Dall’ordinanza in commento, emerge che il Magistrato relatore, ha appurato personalmente la presenza di un muro alto 6 metri, posizionato a soli 2 dalla finestra della cella di in cui il detenuto reclamante si trovava, che impediva la vista del cielo e, di conseguenza, l’ingresso di luce naturale diretta, oltre ad un adeguato ricambio di aria. Tale circostanza è stata ritenuta dal Tribunale di sorveglianza pregiudizievole della vivibilità dell’ambiente in cui il detenuto era costretto a vivere 21 ore su 24 al giorno, rappresentando così una evidente lesione del diritto alla salute e al vivere dignitoso, tutelato sia dall’ordinamento interno che da quello internazionale. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo, in diversi provvedimenti, ha, infatti, affermato che condizioni detentive caratterizzate da carenza di luce ed aria naturale possono costituire una violazione dell’art. 3 della CEDU, relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti (cfr. sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 16 luglio 2009 – Ricorso n. 22635/03 – Sulejmanovic c. Italia).

Quanto, poi, alla seconda doglianza, ovvero l’impossibilità di svolgere qualsiasi tipo di attività sportiva a causa delle dimensioni particolarmente ridotte del cortile passeggio, è tanto chiaro quanto superfluo evidenziare come il movimento fisico, all’aria aperta, sia necessario per chiunque – e, a fortiori, per i soggetti privati della libertà personale – al fine di mantenere un buono stato di salute ed evitare eventuali compromissioni del benessere psicomotorio. L’insufficienza dello spazio dedicato a tale attività rappresenta una chiara violazione del diritto previsto dall’art. 32 Cost. e del rispetto della vita privata (inteso come protezione della salute o della morale), tutelato dall’art. 8 CEDU.

Premettendo che nessuna delle circostanze pregiudizievoli dei diritti del detenuto si verificherebbe in caso di collocamento presso il primo o il secondo piano del reparto riservato ai detenuti in regime di 41-bis, il Tds di Bologna ha correttamente concluso con l’accoglimento del reclamo, evidenziando come «la continuativa detenzione in tale condizioni appare contraria al senso di umanità, cui l’esecuzione della pena deve improntarsi, risolvendosi in una ulteriore e gratuita afflizione per il ristretto, non giustificata da alcuna esigenza securitaria».

L’ordinanza si pone come un significativo passo avanti nel riconoscimento dei diritti umani dei detenuti in regime di 41-bis. Il diritto a un contatto diretto con la luce naturale, a una corretta areazione e a spazi adeguatamente ampi per svolgere attività fisica non può essere negato senza che ciò configuri una violazione delle convenzioni internazionali sui diritti umani, nonché dello stesso diritto interno. Questa pronuncia del Tribunale di sorveglianza di Bologna, quindi, contribuisce a rafforzare l’idea che la sicurezza dello Stato e la tutela dei diritti fondamentali non siano elementi inconciliabili, ma che possano convivere nel rispetto dei principi fondamentali.

Diversa sorte ha avuto il reclamo presentato dal medesimo detenuto avverso il diniego da parte della Casa di Reclusione di Parma alla richiesta di poter integrare l’elenco dei generi alimentari inseriti nel Modello 72 (elenco di prodotti che possono essere acquistati presso l’impresa all’interno del carcere stesso) con la pasticceria fresca, come già concesso in altri istituti penitenziari.

Il Magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, con l’ordinanza in commento (ord. n. 3305/2024) ha rigettato il reclamo, ritenendo impossibile garantire la somministrazione dei prodotti oggetto di istanza nella stessa giornata di produzione e valutando come gravemente  rischioso per la salute pubblica e per l’ordine e la sicurezza dell’istituto l’eventuale ritardo nella consegna di alimenti deperibili.

Tuttavia, una simile decisione deve essere esaminata alla luce del principio di proporzionalità – fondamentale sia nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che in quella della Corte Costituzionale – secondo cui le restrizioni imposte ai detenuti devono essere giustificate e proporzionate rispetto agli obiettivi di sicurezza e ordine dell’istituto.

In tale senso depone la sentenza Kadiķis c. Lettonia, nella quale la CEDU ha affermato che la privazione di beni non essenziali, come alimenti particolari, senza un rischio dimostrabile per la sicurezza, può configurarsi come una restrizione eccessiva e ingiustificata, violando così l’art. 3 CEDU, che proibisce trattamenti inumani o degradanti.

In assenza di prove tangibili che la pasticceria fresca rappresenti una minaccia per la salute pubblica o l’ordine dell’istituto, il diniego del magistrato appare fondato su un rischio ipotetico e non reale, e quindi francamente sproporzionato.

Quanto all’impossibilità di somministrare i prodotti nella stessa giornata – circostanza individuata dal Mds come causa di eventuali problemi per la salute dei detenuti e l’ordine e sicurezza dell’istituto – è, poi, necessario evidenziare che esistono numerose modalità per garantire la sicurezza degli alimenti deperibili, che vengono utilizzate quotidianamente  nell’ambito dell’industria dolciaria. Se così non fosse, non solo nell’ambiente carcerario, ma in ogni contesto in cui si producono o si utilizzano prodotti di pasticceria fresca, si dovrebbe procedere alla loro eliminazione, qualora non vengano consumati in giornata. Come noto, nella prassi ciò non accade.

Non è irragionevole immaginare che i prodotti oggetto di istanza possano essere gestiti in modo simile ad altri alimenti deperibili, già presenti nel Modello 72 e distribuiti nelle carceri. Le misure organizzative per garantire la somministrazione sicura dei prodotti potrebbero risolvere le preoccupazioni espresse dal Mds, senza necessità di imporre un divieto totale.

Infine, occorre considerare il diritto del detenuto a una varietà alimentare e a mantenere una vita quanto più dignitosa possibile, anche in regime di 41-bis. La pasticceria fresca, pur non essendo un bene di prima necessità, può contribuire a migliorare le condizioni quotidiane del detenuto, aumentando il suo benessere psicofisico. La Corte Europea ha, infatti, riconosciuto in casi come Klass c. Germania e Hirst c. Regno Unito come anche piccole privazioni, se cumulative e ingiustificate, possono influire sulla qualità della vita dei detenuti e configurare violazioni dei diritti umani.

Il rigetto del reclamo appare, quindi, privo di ragionevole giustificazione, in quanto incongruo, sproporzionato e inutile alla luce degli obiettivi di ordine e sicurezza cui tendono le misure restrittive imposte dal regime carcerario speciale; evidente, pertanto, il contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come una ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva, contraria al senso di umanità.

Le due ordinanze analizzate delineano chiaramente il confine tra le legittime esigenze di sicurezza dello Stato e il dovere di garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti, anche in regime di 41-bis. Sebbene tale trattamento sia progettato per isolare i detenuti più pericolosi, è fondamentale che le misure restrittive imposte non vadano oltre ciò che è strettamente necessario per garantire la sicurezza pubblica, rischiando di trasformarsi in trattamenti inumani o degradanti, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Sia l’accesso alla luce naturale e agli spazi per l’attività fisica, sia la possibilità di ricevere beni di consumo come la pasticceria fresca, rappresentano aspetti che, pur connessi a diritti diversi, condividono lo stesso principio: il rispetto della dignità umana, anche in contesti di massima restrizione della libertà personale. Questi diritti non possono essere sacrificati senza un’adeguata giustificazione, poiché essi contribuiscono a preservare la qualità della vita del detenuto, nel rispetto della funzione della pena che deve tendere alla rieducazione e deve essere rispettosa della condizione umana, come stabilito dall’articolo 27 della Costituzione italiana.

La giurisprudenza europea ha ribadito che le restrizioni ai diritti dei detenuti devono essere proporzionate e sorrette da reali esigenze di sicurezza, evitando ogni compressione ingiustificata dei loro diritti fondamentali. Anche il diniego di piccoli comfort, come la pasticceria fresca, se non ispirato a scongiurare un pericolo concreto, può apparire sproporzionato e lesivo del diritto a condurre una vita dignitosa.

In definitiva, entrambe le ordinanze ci offrono l’opportunità di riflettere sull’importanza di garantire ai detenuti, anche in regime di isolamento, il rispetto di diritti minimi fondamentali. L’equilibrio tra sicurezza pubblica e diritti umani deve sempre essere mantenuto, e il rispetto della dignità umana non può essere compromesso, anche in nome delle più stringenti esigenze di sicurezza.

Sebbene, quindi, da una parte si comprenda la necessità dello Stato di tutelare l’ordine e la sicurezza sia pubblica che interna agli istituti carcerari, attraverso l’applicazione di un regime restrittivo specifico per quei detenuti ritenuti particolarmente pericolosi, dall’altra, non si vede il motivo per cui agli stessi debbano essere applicate delle misure eccessivamente afflittive e degradanti.

Vero è che entrambe le istanze del detenuto, definite in modo differente con i provvedimenti  in commento, non pongono pregiudizio alcuno al regime di sicurezza particolare presidiato dall’art. 41 bis o.p., ma, al contrario, contribuiscono ad un migliore percorso di risocializzazione e di umanizzazione della pena.

Come citare il contributo in una bibliografia:
E. Fanciullo, Dal riconoscimento del “diritto al cielo” alla preclusione alla “pasticceria fresca”: due modi di intendere il 41-bis O.P., in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 10