Revisione della “strage di Erba”: le motivazioni della Corte di Appello di Brescia
Corte di Appello di Brescia, Sez. II, 7 ottobre 2024 (ud. 10 luglio 2024), 1245
Presidente dott. Minervini, Relatore dott.ssa Sanesi
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico e giuridico della vicenda (relativa alla cd. “strage di Erba“), la sentenza con cui la Corte di Appello di Brescia ha dichiarato inammissibili le istanze di revisione proposte dal Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano e dalla difesa degli imputati.
In punto di diritto, la Corte di Appello si è anzitutto pronunciata sulla richiesta di revisione presentata dal dott. Cuno Tarfusser, ritenendola «inammissibile per difetto di legittimazione del proponente».
L’art. 632 c.p.p. – si legge nella sentenza – «include tra i soggetti legittimati alla proposizione della richiesta di revisione il procuratore generale presso la corte d’appello nel cui distretto fu pronunciata la sentenza di condanna e l’art.633 c.p.p. prescrive che la domanda sia presentata nella cancelleria della corte d’appello individuata secondo i criteri dell’art.11 c.p.p.». Nel caso in esame, «la richiesta di revisione è stata formulata da un sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Milano privo di delega relativamente alla materia delle revisioni, riservata, secondo il documento organizzativo dell’ufficio, all’avvocato generale, e non assegnatario del fascicolo ed è stata depositata nella cancelleria del Procuratore Generale di Milano, che l’ha trasmessa alla Corte evidenziando la carenza di legittimazione del proponente, disconoscendone il contenuto e chiedendo che fosse dichiarata inammissibile».
Secondo i giudici, «non avendo il Procuratore Generale, unico soggetto legittimato ex lege alla proposizione della richiesta, fatto propria l’istanza e avendo, anzi, affermato l’inammissibilità della stessa e la carenza di legittimazione del dott. Tarfusser, è, dunque, la stessa volontà del soggetto legittimato e che, di fatto, ha provveduto al deposito presso la cancelleria di questa Corte a non essersi formata».
Quanto alla richiesta di revisione presentata da Olindo Romano e Rosa Bazzi, la stessa è stata ritenuta «rituale, ma inammissibile sotto il duplice profilo della mancanza di novità e della inidoneità a ribaltare il giudizio di penale responsabilità delle prove di cui è chiesta l’ammissione».
La diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti – si legge nelle motivazioni – «può costituire “prova nuova” solo se fondata su nuove acquisizioni scientifiche, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili e sempre che si tratti di applicazioni tecniche accreditate e condivise all’interno della comunità scientifica di riferimento».
Poiché una parte delle prove di cui la difesa chiede oggi l’acquisizione sono rappresentate da interviste rese a testate giornalistiche e televisive – prosegue la Corte – «a queste preliminari considerazioni sulla nozione di “prova nuova”, deve aggiungersi che la natura di documento dei supporti cartacei e audiovisivi di tali interviste non vale, ad avviso della Corte, a conferire loro il rango di prova ammissibile in sede processuale».
Diversamente dal testimone escusso in giudizio, «il soggetto intervistato non ha l’obbligo, penalmente sanzionato, di dire la verità e non assume alcun impegno in tal senso. Al contrario, è sicuramente condizionato dal mezzo e dalla pubblicità che esso garantisce e tende generalmente a compiacere l’intervistatore e a porsi in una luce favorevole, abbandonandosi a supposizioni ed esprimendo opinioni personali che non sarebbero ammesse in sede processuale».
La Corte di Appello prosegue osservando come «nessun presidio, aldilà della deontologia dell’intervistatore, sia previsto a tutela della genuinità e libertà delle sue risposte e della correttezza delle domande, che ben possono essere, in un’ottica di mero giornalismo investigativo, suggestive, insinuanti e insidiose».
L’argomento – si precisa – «vale per tutte le interviste proposte dalle difese nell’istanza di revisione e nelle successive memorie, a maggior ragione per quelle a soggetti che hanno deposto nel dibattimento di primo grado, la cui testimonianza non può essere falsificata da risposte incerte o apparentemente in contrasto con quanto dichiarato nella sede processuale deputata, offerte a distanza di quasi vent’anni dai fatti e dalla testimonianza resa in primo grado, fuori da un’aula di giustizia, in contesti privi della “sacralità” propria del processo, senza obbligo di verità e in assenza delle regole fissate dagli art. 498 ss. c.p.p.».