Aggravante della crudeltà e numero di colpi inferti alla vittima
Cassazione Penale, Sez. I, 24 febbraio 2015, n. 8613
Presidente Giordano, Relatore Magi
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’attualità del tema (oggetto di attenzione in recenti vicende di cronaca), una sentenza del 2015 con cui la prima sezione penale della Corte di cassazione si era soffermata sulla rapporto tra la sussistenza della circostanza aggravante della crudeltà (art. 61 n. 4 c.p.) e il numero di colpi inferti alla vittima.
Nell’esercitare la funzione assegnatale dalle norme di ordinamento giudiziario – si legge nella sentenza – “questa Corte ha più volte evidenziato che il fondamento della aggravante di aver agito con crudeltà è ravvisabile in una maggior meritevolezza di pena lì dove le circostanze concrete dell’azione consentano di identificare un effettivo superamento della “normalità causale” determinante l’evento, con volontà di infliggere alla vittima sofferenze aggiuntive rispetto a quelle “ricompresse” nella ordinaria incriminazione del fatto tipico“.
Ciò perché “il sistema penale non consente di considerare punibile più di una volta (anche sotto il profilo circostanziale) la medesima condotta causativa dell’evento preso di mira e tipizzato dalla norma incriminatrice (divieto del bis in idem sostanziale come corrolario del più generale principio di tassatività e determinatezza delle incriminazioni)“.
La Corte osservava come si fosse già “affermato, in numerosi e recenti arresti che, nel delitto di omicidio volontario, la mera reiterazione dei colpi inferti (anche con uso di arma bianca) non può determinare la sussistenza dell’aggravante dell’aver agito con crudeltà se tale azione non eccede i limiti connaturali rispetto all’evento preso di mira e non trasmoda in una manifestazione di efferatezza, fine a se stessa“; motivo per cui “non vi è, nè vi potrebbe essere, da parte della giurisprudenza di questa Corte la fissazione di un preciso limite “numerico” dei colpi inferti, oltrepassato il quale l’omicidio può dirsi aggravato dall’aver agito con crudeltà, essendo invece necessario l’esame delle modalità complessive dell’azione e del correlato elemento psicologico del reato posto in essere“.
Nel compiere tale verifica, pertanto, “da un lato non può ritenersi possibile la considerazione sub specie aggravante di elementi di disvalore già ricompresi nel finalismo omicidiario o in diversa e autonoma circostanza (sopprimere volontariamente una vita è di per sè atto contrario a qualunque senso di umanità) dall’altro va ribadito che il profilo ricostruttivo del fatto “circostanziale” non può che essere assoggettato alle medesime regole dimostrative (certezza processuale, al di là di ogni ragionevole dubbio) previste per la affermazione di penale responsabilità sul fatto principale“.
Nel caso di specie, “la sussistenza della circostanza in parola è stata motivata con prevalente riferimento al numero dei colpi inferti, cui si è aggiunto il rilievo dell’abbandono della vittima in stato agonico“.
Quanto al primo aspetto, “si è già affermato che la mera reiterazione dei colpi (pur in tal caso, consistente) non può essere ritenuta fonte di detto aggravamento di pena, in un contesto sorretto dal dolo d’impeto e dal finalismo omicidiario correlato a tale condizione psicologica“.
Quanto al secondo, “l’abbandono in stato agonico è anch’esso condotta ricompresa nel finalismo omicidiario, non potendo assimilarsi la crudeltà all’assenza di tentativi di soccorso alla vittima (che presuppongono una modifica sostanziale del finalismo che ha generato l’azione)“.
Tale sentenza era stata poi ripresa dalla successiva sentenza delle Sezioni Unite (la numero 40516/2016), ove si era osservato che la pronuncia “reca in realtà una soluzione del dubbio sull’aggravante che non è basata su ragioni dogmatiche legate alle caratteristiche normative delle figure del dolo d’impeto e della crudeltà“.
L’esclusione della circostanza – osservavano le Sezioni Unite – “non era determinata dall’esistenza di dolo d’impeto, cioè di una deliberazione criminosa improvvisa, bensì dalla rabbiosa concitazione che determinò la furiosa e non mirata ripetizione dei colpi che attinsero la vittima in organi non vitali, tanto che la morte sopravvenne solo in un momento successivo al termine dell’azione violenta“.
Dunque – si concludeva nella sentenza 40516/2016 – “la pronunzia si rivela, al fondo, perfettamente aderente alle caratteristiche dell’aggravante che si sono sopra tratteggiate: l’inflizione di lesioni eccedenti rispetto alla normalità causale, sorretta dalla perversa volontà di cagionare gratuite sofferenze fisiche o morali. La Corte di legittimità analizza il caso alla ricerca della colpevolezza dell’aggravante alla stregua del metodo indiziario che costituisce l’unico possibile strumento per l’indagine sulla colpevolezza, sull’atteggiamento interiore che contrassegna il processo decisionale; la ragionata conclusione dell’indagine è che l’azione è mossa da parossistica impulsività e non da dolo di crudeltà“.