CONTRIBUTIDIRITTO PENALE

Insulti via social: una nuova (inquietante) ipotesi di scriminante?

in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 1 – ISSN 2499-846X

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, richiesta di archiviazione
Sostituto Procuratore Dott. Roberto Furlan

Tra le tante conseguenze determinate dall’evoluzione tecnologica si può certamente annoverare la diffusione dei social e, in generale, di strumenti che consentono oggi a chiunque di esprimere il proprio pensiero, con estrema facilità e praticamente su qualsiasi tema, argomento, dibattito.

Un’altra conseguenza è stato il diffondersi in modo quasi incontrollato di tracce della vita privata delle persone: se un tempo pensieri e fatti di ognuno di noi erano destinati a esser conosciuti da una ristretta sfera di “intimi” (amici e familiari), perché i soli modi di renderli noti erano sostanzialmente la parola e le foto, scambiate di persona e in presenza, oggi rapidità e facilità di diffusione sono la cifra della comunicazione. Bastano pochi istanti per scrivere un post su Facebook – o addirittura per mettere un like o effettuare una condivisione – e  far così conoscere la propria opinione su un fatto o un comportamento. Analogamente, occorrono pochi secondi per scattare una foto o registrare un video con il cellulare (strumento che accompagna ormai ogni istante della vita delle persone) e ancor meno per trasmettere quei contenuti a una cerchia più o meno ampia di destinatari, ad esempio mediante Whatsapp, o per diffonderli in modo più generalizzato, tramite Instagram, TikTok o chissà quante altre piattaforme sconosciute a chi scrive.

Dal punto di vista giuridico, questo ha portato negli ultimi decenni a un crescente – necessario – intervento della giurisprudenza, che sempre più spesso si è dovuta confrontare con le nuove tecnologie e i profili critici da esse imposti anche in ambiti per così dire tradizionali o comunque regolamentati da discipline nate in un’altra epoca: un perfetto esempio di ciò è rappresentato dalla diffamazione a mezzo stampa, divenuta sempre meno tale e sempre più a mezzo social o, comunque, a mezzo di comunicazione digitale.

Il diffondersi delle attività sopra accennate ha portato i giudici a doversi confrontare sempre più spesso con offese recate a distanza e in luoghi virtuali, circostanze che hanno generato nuovi problemi, quali l’individuazione del giudice competente e, talora, quella dello stesso responsabile dell’ipotizzato reato, celato dietro pseudonimi, nick, nomi di fantasia ove non addirittura identità rubate.

Sin ad oggi, però, c’era una certezza: pur con tutte le sue specificità, il mondo dei social non costituiva una sorta di moderno Colosseo in cui tutto era consentito, a cominciare dagli insulti. Anzi, ben ferme son sempre risultate le decisioni della giurisprudenza nel ribadire che, per essere legittima, l’espressione di un pensiero, quand’anche critico o addirittura aspro, deve rispettare il limite della continenza espressiva e ciò a prescindere dal “luogo” in cui quel pensiero viene manifestato: che si tratti di una riunione assembleare, di un articolo di giornale o di un intervento sui social, non si può insultare gratuitamente, utilizzando parole di per sé intrinsecamente offensive.

Quelle che, per gli operatori del diritto (e di conseguenza per i cittadini), sembravano costituire granitiche certezze, paiono ora messe in discussione da un provvedimento – allo stato fortunatamente solo in fieri e in alcun modo consolidato – di un magistrato della Procura della Repubblica di Torino, che, nel presentare al Gip del locale Tribunale una richiesta di archiviazione relativa a un procedimento per diffamazione via web, pare sdoganare l’insulto via social sul presupposto di una sostanziale desensibilizzazione dello stesso, in virtù della diffusione di trasmissioni radiofoniche e televisive che hanno fatto dell’insulto la propria cifra distintiva.

La questione analizzata dal Pubblico Ministero è relativa a una vicenda che è assurta agli onori della cronaca diversi mesi fa, allorché, in occasione di una festa di compleanno, il compagno della festeggiata aveva deciso di rendere noto a tutti i presenti la presunta infedeltà della stessa. La scena era stata ripresa da qualcuno dei presenti tramite cellulare e, da qui, diffusa in rete e per tale via sostanzialmente comunicata urbi et orbi. La ripresa del video su molteplici piattaforme on-line, in primis su Facebook, aveva originato un fiorire di commenti fortemente offensivi (per usare le sobrie parole del provvedimento giudiziario).

Nel motivare la propria richiesta di archiviazione, il Sostituto Procuratore della Repubblica titolare del fascicolo richiama gli insegnamenti della Suprema Corte, affermando perentoriamente che, affinché l’esercizio del diritto di critica possa considerarsi legittimo, debbono esser rispettati tre presupposti: 1) la verità dei fatti; 2) l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto; 3) la continenza espressiva.

Ritenuta provata la verità dei fatti anche in virtù della mancata smentita del tradimento da parte dell’interessata, ad avviso del Pubblico Ministero l’interesse pubblico risulterebbe riscontrato sia dalla caratura pubblica dei personaggi coinvolti, sia soprattutto dalla circostanza che la persona offesa aveva deciso, dopo la diffusione del video, di partecipare “seppur indirettamente, a trasmissioni televisive o eventi pubblici, anche inviando degli scritti con i quali aveva riferito la propria versione dei fatti”, in tal modo contribuendo a incrementare e comunque a rafforzare l’interesse pubblico verso la sua vicenda, per quanto essa fosse di per sé di natura privata.

Come accennato, è però la valutazione compiuta dal magistrato in merito alla continenza espressiva della vicenda de quo a destare non poca sorpresa.

Dopo aver ricordato l’insegnamento della Cassazione, secondo cui “il diritto di critica può essere esercitato anche attraverso l’utilizzo di espressioni forti, ancorché con il limite di un’aggressione gratuita alla sfera morale altrui o nel dileggio o disprezzo personale”, il Pubblico Ministero evoca dapprima il linguaggio “vernacolare” – ove i fatti della vita sentimentale e/o sessuale sono spesso descritti con commenti ed epiteti analoghi a quelli utilizzati nella vicenda in questione – per poi richiamare quei precedenti arresti della Suprema Corte in cui è stata indicata l’opportunità di una “maggiore elasticità” nella valutazione delle espressioni offensive, che tenga conto del “contesto dialettico nel quale sono realizzate le condotte”, giungendo per tale via ad affermare che “il luogo e l’ambiente ove le offese sono pronunciate al giorno d’oggi conta, eccome”, come dimostra il successo di alcune seguitissime trasmissioni tv e radio, “il cui successo si fonda ormai sull’insulto e sul dileggio” e a concludere che non può più esigersi che la critica ai fatti privata delle persone si esprima sempre con toni misurati ed eleganti.

Se l’argomento richiamato dal provvedimento in commento è certamente suggestivo (il successo di prodotti tv e radiofonici non propriamente da … Accademia della Crusca), ciò che pare non corretta è, da un lato, l’equiparazione di situazioni molto diverse tra loro (trasmissioni in cui tutti i partecipanti scelgono di esporsi e accettano dunque, implicitamente, il rischio di essere insultati – per usare il concetto penalistico del dolo eventuale – e bacheche social, più o meno aperte al pubblico in cui, senza alcun contraddittorio né preventiva accettazione di “quelle” regole, anzi spesso senza neppure alcuna previa conoscenza tra autore del commento e destinatario dello stesso, quest’ultimo viene insultato) e, dall’altro, l’accostamento del concetto di “toni non sempre misurati ed eleganti” alle espressioni utilizzate nella vicenda de qua, che, pur non menzionate nel provvedimento, appaiono facilmente immaginabili e di tale volgarità da sconfinare in quella gratuita aggressione alla sfera privata altrui che, da sempre, è stata considerata dalla giurisprudenza – giustamente – un baluardo non superabile e non sacrificabile sull’altare del diritto di manifestazione del pensiero.

Non resta che attendere, dunque, il giudizio cui sarà chiamato il Gip, confidando che la posizione del Pubblico Ministero resti una voce isolata.

Come citare il contributo in una bibliografia:
J. Antonelli Dudan, Insulti via social: una nuova (inquietante) ipotesi di scriminante?, in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 1