Alla Corte costituzionale è precluso l’annullamento delle norme penali favorevoli: la Cassazione solleva questione di legittimità dell’art. 73, DPR n. 309/90
in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 1 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sezione VI, Ordinanza, 12 gennaio 2017 (ud. 13 dicembre 2016), n. 1418
Presidente Carcano, Relatore Bassi
Si informa il lettore che, con ordinanza pronunciata il 13 dicembre 2016 e depositata lo scorso 12 gennaio, la sesta Sezione della Corte di Cassazione penale ha rimesso alla Consulta una questione di legittimità costituzionale relativa al trattamento sanzionatorio per reati in materia di stupefacenti (art. 73 D.P.R. 309/1990).
In particolare, la questione riguarda il potere della Corte costituzionale di annullare disposizioni penali favorevoli e, conseguentemente, di rendere più severa o più ampia, in definitiva peggiore, la norma penale. Tale facoltà sarebbe infatti riservata in via esclusiva al Legislatore parlamentare, in virtù del principio di riserva di legge racchiuso nell’art. 25 secondo comma Cost..
Con la pronuncia di seguito analizzata e più sotto allegata, il Supremo Collegio ha chiesto che l’art. 73 D.P.R. 309/90 come oggi in vigore sia dichiarato incostituzionale perché frutto di una sentenza costituzionale resa in violazione dei poteri affidati al Giudice delle leggi.
Riservando ad altro momento alcuni spunti critici sul tema, ci limitiamo in questa sede ad esporre le argomentazioni avanzate dalla Suprema Corte.
1. L’antefatto. L’evoluzione normativa dell’art. 73, D.P.R. n. 309/90
Per una più agevole comprensione della pronuncia in esame, pare utile rammentare che la norma investita della questione di legittimità costituzionale (l’art. 73 D.P.R. 309/90) è stata oggetto di alcune modifiche, da parte del Legislatore e della stessa Consulta.
Ci si riferisce in particolare all’art. 4-bis comma 1, D.L. 272/2005, convertito con Legge n. 49/2006 (cd. Legge Fini-Giovanardi), e alla sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014, che tale ultima norma ha dichiarato incostituzionale. Per effetto di questi interventi si è generata una successione di leggi penali nel tempo con specifico riferimento all’art. 73 commi 1 e 4, D.P.R. n. 309/90, che – come si vedrà – ha condotto all’odierna pronuncia di rinvio, e di cui dunque è bene dare atto.
Si riporta anzitutto il testo della norma come appariva prima di entrambi i mutamenti.
Art. 73 D.P.R. 309/1990 pre-riforma 2006.
- Comma 1. “Chiunque senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dall’articolo 75 e 76, sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’articolo 14, è punito con la reclusione da otto a venti anni e con la multa da euro 25.822 (lire cinquanta milioni) a euro 258.228 (lire cinquecento milioni)”.
- Comma 4. “Se taluno dei fatti previsti dai commi 1, 2 e 3 riguarda sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle II e IV previste dall’articolo 14, si applicano la reclusione da due a sei anni e la multa da euro 5.164 (lire dieci milioni) a euro 77.468 (lire centocinquanta milioni)”.
Come si vede, le condotte relative alle cd. droghe pesanti (comma 1) erano punite più gravemente rispetto alle medesime relative alle droghe leggere (comma 4).
Con il primo dei citati interventi il Legislatore annullava tale distinzione, parificando il trattamento sanzionatorio, consistente per tutte le condotte nella reclusione da 6 a 20 anni e nella multa da € 26.000 a 260.000.
All’occhio accorto del giurista non sfugge che tale norma successiva, certamente più sfavorevole per le condotte su droghe leggere, è tuttavia più favorevole per fatti di droghe pensanti, essendo il minimo edittale della reclusione passato da 8 a 6 anni.
Successivamente, l’evocata sentenza del Giudice delle Leggi, che tale parificazione aveva ritenuto contraria a Costituzione per violazione, in sede di conversione del decreto legge, dell’art. 77 comma 2 Cost., aveva invece fatto rivivere la norma caducata e ristabilito il diverso disvalore della condotta sulla base della “pesantezza” della sostanza. In altri termini, siffatta pronuncia aveva l’effetto di abrogare una norma che in astratto era al contempo più sfavorevole e più favorevole al reo.
In considerazione di tutti tali mutamenti, il testo oggi in vigore corrisponde a quello più sopra indicato.
2. Il fatto. Una condanna troppo lieve per fatti di “droga pesante”
Chiarita l’evoluzione della norma in analisi, si riferisce ora sinteticamente il fatto da cui è scaturita l’ordinanza di rimessione.
A seguito di giudizio abbreviato, il Giudice per l’Udienza Preliminare di Imperia condannava l’imputato alla pena di giustizia, dopo aver accertato la sua penale responsabilità in merito a due condotte contestate: da un lato la detenzione di 23 ovuli contenenti eroina per un quantitativo complessivo di 150 dosi singole, e dall’altro lato la cessione continuata di tale sostanza a due soggetti, con cadenza regolare da due a quattro volte a settimana.
Tali contestazioni erano in ultimo riqualificate, rispetto alla prospettazione accusatoria, non già nella fattispecie base ex art. 73 comma 1, D.P.R. n. 309/90, quanto in quella meno grave ai sensi del successivo comma 5, la quale – come noto – prevede sanzioni notevolmente più miti qualora i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione, ovvero la qualità e quantità delle sostanze, conducano a ritenere che la condotta fosse di lieve entità.
A sostegno di tale operazione, il giudice avanzava ragioni quali il modesto quantitativo delle dosi singole, la bassa percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza, i ricavi modesti ottenuti dalle cessioni, l’assenza di elementi che attestassero l’abitualità delle condotte.
Il provvedimento di condanna era in seguito impugnato dianzi la Suprema Corte dall’Ufficio di Procura, che lamentava – tra l’altro – l’erronea applicazione della legge in punto di qualificazione giuridica del fatto. Sussisterebbero infatti gli estremi per l’ipotesi base, più severamente punita, e non per quella lieve; ciò sui rilievi che la quantità di sostanza era notevole e che il soggetto era dedito ad attività di spaccio professionale.
Orbene, la Suprema Corte, facendo leva sull’alto grado di offensività della condotta, desunta dalla quantità di sostanza complessivamente detenuta, nonché dalla cadenza ravvicinata delle cessioni, riteneva in questo caso inapplicabile l’ipotesi lieve ex comma 5, ed invece configurabile quella base ex comma 1.
Al contempo, stimava la Corte che, pur non versandosi nella fattispecie lieve, i fatti erano pur sempre di modesta entità, con la conseguenza che il Giudice di merito avrebbe dovuto applicare un trattamento sanzionatorio equivalente o vicino al minimo edittale.
3. La questione di legittimità
Proprio sul minimo edittale della pena per fatti di droga pesante, e sulla sua evoluzione cronologica, si sviluppa la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Supremo Collegio.
Nel dettaglio, la Corte ha ritenuto che “sussistano i presupposti per sollevare la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 25, 3 e 27 Cost., in relazione all’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309/1990, nella parte in cui detta norma prevede – a seguito della sentenza n. 32 dell’11 febbraio 2014 della Corte costituzionale – la pena minima edittale di otto anni in luogo di quella di sei anni introdotta con l’art.4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modificazioni con la legge 21 febbraio 2006, n. 49” (para. 1).
Come più sopra visto, il minimo edittale pari a 6 anni costituiva a sua volta trattamento sanzionatorio più mite rispetto al precedente, con la conseguenza che la Consulta aveva di fatto abrogato una norma penale più favorevole al reo. Detto altrimenti, la sentenza costituzionale aveva (re)introdotto nell’ordinamento una norma penale più severa.
4. Le motivazioni a sostegno della questione
A fondamento della questione così sollevata, la ragione che il Giudice delle leggi non abbia il potere di intervenire sulla legge penale con pronunce che sortiscano l’effetto di ampliare l’area di incriminazione o di inasprire il trattamento sanzionatorio.
La base che fonda siffatta motivazione consiste in una cospicua e complessa giurisprudenza costituzionale, estesamente citata nell’ordinanza, sul tema della sindacabilità o meno delle norme penali di favore da parte della Consulta.
L’orientamento assunto dal Giudice delle leggi parte da un postulato generale secondo cui, in ossequio al principio di riserva di legge in materia penale, alla Corte costituzionale è fatto divieto, per mezzo di una pronuncia di accoglimento, “sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti a casi non previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità”. Tale attività sarebbe riservata in via esclusiva al Parlamento ai sensi dell’art. 25 comma secondo Cost. (para. 7.1).
Corollario immediato di tale principio, evidentemente, è che alla Consulta è precluso il sindacato delle cd. “norme penali di favore”, e si è così posto immediatamente il problema di definire con precisione tale nozione.
Sul punto, la giurisprudenza costituzionale ha col tempo distinto tra previsioni normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di reato; e quelle che invece “sottraggono” una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva (vedi Corte cost. sentenze nn. 394/2006 e 161/2004).
Solo le seconde potrebbero essere qualificate alla stregua di norme penali di favore, ove abbiano l’effetto di introdurre un trattamento privilegiato per una o più categorie di soggetti; non invece le prime, che sono il frutto di una valutazione legislativa in termini di ‘meritevolezza’ ovvero di ‘bisogno’ di pena, idonea a caratterizzare una precisa scelta politico-criminale; scelta cui la Corte non potrebbe sovrapporre, senza esorbitare dai propri compiti ed invadere il campo riservato al Legislatore dall’art. 25 comma 2 Cost., una diversa strategia di criminalizzazione volta ad ampliare l’area di operatività della sanzione.
Seguendo le linee ermeneutiche così tracciate dalla Consulta, la Corte concludeva che “non è assoggettabile a scrutinio di costituzionalità in malam partem quella norma che (…) comporti una ‘mitigazione della risposta punitiva’, trattandosi in tale caso di una semplice ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, di un intervento di carattere generale frutto della valutazione discrezionale riservata al legislatore in materia penale, non teso ad introdurre un privilegio per particolari categorie di soggetti o di comportamenti” (para. 7.3). Più precisamente, “non può ritenersi consentita la pronuncia d’incostituzionalità in malam partem che interessi una norma (…) con la quale il legislatore sia intervenuto a modificare la risposta sanzionatoria (…) in virtù di una valutazione di politica criminale (…)” (para. 7.4).
Orbene, alla luce dei suddetti principi, la Corte riteneva che l’abbassamento del minimo edittale per fatti di droga pesante, come da ultimo risultante dalla successione di leggi penali nel tempo relativa all’art. 73, d.P.R. n. 309/1990, consista non già in una norma penale di favore in senso stretto, quanto in una mitigazione della risposta sanzionatoria per valutazioni di politica di criminale, come tale affidata alla discrezionalità del legislatore e dunque ad esso riservata in via esclusiva.
Di conseguenza, con la citata sentenza n. 32/2014 la Consulta ha di fatto violato il principio di riserva di legge, e la norma che da tale pronuncia discende, vale a dire la versione dell’art. 73 oggi in vigore, è essa stessa contraria all’art. 25 comma 2 Cost..
In ultimo, la Corte ha pure ritenuto sussistenti profili di contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. per difetto di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione, sul presupposto che il minimo edittale pari a otto anni sia misura sanzionatoria del tutto irragionevole, se comparata alle pene previste sia per fatti di droga leggera sia per l’ipotesi lieve ex art. 73 comma 5, D.P.R. n. 309/1990.
Ciò sarebbe dimostrato per un verso dallo “iato” pari a due anni di reclusione, venutosi a creare tra il massimo per condotte di droga leggera (6 anni) ed il minimo per droghe pesanti (8 anni); per altro verso dalla prassi invalsa in alcuni Tribunali, consistente nell’interpretare estensivamente il citato comma 5, pur di punire meno severamente (e più giustamente) fatti non gravi di droga pesante.
A conclusione dell’ordinanza, ritenendo preclusa la reintegrazione integrale della norma introdotta dalla legge Fini-Giovanardi, perché pur sempre contraria all’art. 77 comma 2 Cost., e al contempo volendo evitare un intervento creativo della Consulta, che sarebbe di nuovo in violazione della riserva di legge, la Corte invoca la dichiarazione di incostituzionalità della norma in vigore per contrarietà agli artt. 3, 25 comma 2 e 27 Cost., ed il conseguente ripristino del trattamento sanzionatorio precedente, pari alla reclusione compresa tra 6 e 20 anni.
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Roccatagliata, Alla Corte costituzionale è precluso l’annullamento delle norme penali favorevoli: la Cassazione solleva questione di legittimità dell’art. 73, DPR n. 309/90, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 1