Sulla continuazione in esecuzione: quale il limite massimo per la determinazione della pena? La questione rimessa alle Sezioni Unite
in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 5 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sez. I, ordinanza, 15 febbraio 2017 (ud. 17 gennaio 2017) n. 7367
Presidente Di Tomassi, Relatore Magi
1. Premessa
Con l’ordinanza in commento, la prima sezione della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la trattazione di un tema, quello dell’applicazione della continuazione nella fase dell’esecuzione della pena, in ordine al quale si registra, tra gli orientamenti giurisprudenziali di volta in volta adottati, una “difformità interpretativa diacronica”.
Al fine di comprendere i termini della questione, è necessario riepilogare brevemente la vicenda nel cui contesto detta questione si è inserita: con ordinanza emessa in sede di esecuzione, la Corte d’Appello di Napoli riconosceva, in capo al condannato, la sussistenza del vincolo della continuazione in ordine a fatti giudicati con due separate sentenze, divenute nel frattempo definitive, a loro volta ricondotte al reato continuato anche in rapporto a precedenti analoghi, sui quali si era in passato già espresso, sempre in sede esecutiva, il Tribunale di Napoli.
Il Tribunale di Napoli, in particolare, individuata la violazione più grave, aveva provveduto ad aumentarla, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 81 cpv. c.p., fino al triplo, irrogando la pena complessiva sino al massimo consentito, pari ad anni quattro e mesi sei di reclusione ed euro 3.098,73 di multa.
Intervenuta con riguardo ai successivi fatti sui quali era stata chiamata a pronunciarsi, la Corte di Appello incrementava la sanzione complessiva di ulteriori 2 mesi di reclusione ed euro 400,00 di multa, per una determinazione complessiva di anni quattro, mesi otto di reclusione ed euro 3.498,73 di multa.
Avverso l’ordinanza emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, il condannato proponeva ricorso per cassazione, deducendo erronea applicazione della disciplina regolatrice dell’istituto della continuazione in fase di esecuzione, nonché vizio di motivazione; il procuratore generale chiedeva, per contro, dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, facendo proprio un recente orientamento interpretativo della Cassazione, in forza del quale il superamento, in fase esecutiva, del limite di cui all’art. 81 cpv. c.p. sarebbe stato consentito in ragione del carattere “specializzante” del diverso art. 671 c.p.p.
Conseguentemente, ove la continuazione fosse stata riconosciuta, come nel caso di specie, in fase esecutiva, il limite massimo per la determinazione della pena non sarebbe stato quello del “triplo della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave” (ex art. 81 cpv. c.p.) ma quello della “somma delle pene inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto”, ai sensi dell’art. 671 c.p.p.
2. L’operazione ermeneutica della prima sezione della Corte di Cassazione.
Chiamata a pronunciarsi sul ricorso di cui si è detto, la prima sezione della Corte di Cassazione ha esordito manifestando un consapevole dissenso rispetto all’orientamento giurisprudenziale (peraltro, allo stato, consolidato) citato nella requisitoria scritta del Procuratore Generale.
Invero, posta dinanzi ad un costante orientamento in forza del quale il secondo comma dell’art. 671 c.p.p. rappresenterebbe il parametro ed il limite massimo di determinazione della pena in fase esecutiva (e ciò in deroga alla generale previsione inserita, nel codice di diritto sostanziale, all’art. 81, primo e secondo comma), la Suprema Corte ha ritenuto preferibile aderire all’orientamento risalente (e, allo stato, superato) in forza del quale, anche nella fase dell’esecuzione, il criterio legale di determinazione della pena rimarrebbe quello imposto dall’art. 81, primo e secondo comma, c.p.
In tal senso, l’unica differenza rispetto al procedimento di cognizione consisterebbe nel fatto che il giudice dell’esecuzione non sarebbe libero di scegliere la base di calcolo (rectius: la violazione più grave), rimanendo vincolato a quella già determinata dal giudice del merito.
A sostegno della non applicabilità, in senso derogatorio all’art. 81 cpv. c.p., della disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 671 c.p.p., la Corte di Cassazione ha richiamato tanto la “storia” dell’istituto della continuazione e, conseguentemente, la ratio e la voluntas legis sottese al medesimo, quanto il complessivo piano sistematico in cui è collocata la disciplina di cui trattasi.
Così, sotto il primo profilo, la Cassazione ha ricordato come, sin dalla sua introduzione nel codice penale, a seguito della riforma operata con D.L. 99/1974, il reato continuato avesse, quale primario obiettivo, quello di sottoporre ad un particolare “cumulo giuridico” le ipotesi di violazioni di legge espressive di una deliberazione ideativa unitaria, come tale necessariamente circoscritta nel fine e, per ciò solo, meritevole di un trattamento più favorevole.
La stessa possibilità di applicare la disciplina della continuazione anche in sede esecutiva, intervenuta solo nel 1988 a seguito di intenso dibattito, dottrinale e giurisprudenziale (all’esito del quale la stessa Corte Costituzionale, con sentenza 115/1987, aveva sollecitato l’intervento legislativo), ha rappresentato un’importante novità, la quale, però, lungi dal costituire deroga (più o meno espressa) al sistema sino ad allora vigente, si ricollega completamente al medesimo ed anzi, secondo l’ordinanza in commento, lo completa.
Come chiarito dalla Cassazione, infatti, “La voluntas legis espressa dal legislatore del 1988 appare di assoluta chiarezza, attesa la necessità di risolvere le aporie sistematiche rilevate dopo il 1974 sul terreno della “casuale definizione anticipata” di uno dei giudizi relativi ad un frammento della ipotetica continuazione, attraverso la cedevolezza del giudicato e l’applicazione di “quel” trattamento sanzionatorio (il cumulo giuridico di cui all’art. 81 cpv. cod. pen.) previsto sino a tale momento come irrogabile solo in cognizione o in particolare condizione “mista”. […] Da ciò deriva che non può ritenersi ragionevole una interpretazione delle norme, come quella proposta dall’orientamento da cui si dissente, che finisce con ridimensionare la portata dell’intervento normativo del 1988, sino a svuotarla di effettivi contenuti precettivi, introducendo nel sistema una mutazione genetica dell’istituto tale da alterarne i caratteri identificativi”.
Conseguentemente, la “precisazione”, contenuta nell’art. 671, comma II, c.p.p., che la pena da irrogare per effetto della continuazione deve essere non superiore a quella risultante dal cumulo materiale, lungi dal costituire l’elemento specializzante e derogatorio rispetto alla disciplina prevista dal complementare art. 81 cpv. c.p., altro non è che “la proiezione, in sede esecutiva, dell’ulteriore limite espresso in via generale dall’art. 81, co. 3 cod. pen. […] necessaria al fine di riprodurre in modo conforme (tra cognizione ed esecuzione) la disciplina dell’art. 81 cod. pen. così assicurando la “corrispondenza di risultato” tra i due momenti processuali in cui può venire in rilievo l’accertamento del medesimo disegno criminoso”.
Per altro verso, sotto il secondo profilo, di tipo sistematico, la Cassazione evidenzia come, accogliendo l’orientamento sino ad ora consolidato, la natura di specialità derogatoria sarebbe assegnata ad una norma processuale, secondo un ragionamento che, tuttavia, mal si concilia con la logica del sistema, posto che una norma processuale mai potrebbe incidere sulla fisionomia e sui limiti di applicazione di un istituto di carattere sostanziale.
In ogni caso, prosegue la Corte, più che di specialità, “si dovrebbe ipotizzare una vera e propria sostituzione da parte del legislatore” (e per la sola sede esecutiva) del parametro legale di determinazione della pena previsto in sede sostanziale, “con un criterio del tutto diverso e pienamente discrezionale”, così di fatto alterando, per le ragioni sin qui riassunte, le finalità complessive dell’intervento legislativo del 1988.
3. La “criticità operativa” della (rinnovata) applicazione dell’orientamento giurisprudenziale più risalente.
La corposa trattazione della Cassazione non manca di prendere posizione su quella che potrebbe rivelarsi l’estrema conseguenza dell’interpretazione dalla medesima accolta.
Ed invero, l’accoglimento della tesi prospettata con l’ordinanza in commento potrebbe (neanche troppo raramente) condurre, come nel caso di specie, all’impossibilità di procedere ad un aumento di pena per la continuazione in sede di esecuzione, laddove, nella fase di cognizione, si fosse già raggiunto il limite massimo per la determinazione della stessa, conformemente a quanto disposto dall’art. 81 cpv. c.p.
Trattasi, per vero, dell’argomento fondante le pronunce dalle quali la Suprema Corte ha inteso discostarsi, rilevando come “L’argomento, di marcata impronta prasseologica evita di confrontarsi con la ricorrente affermazione giurisprudenziale per cui l’applicazione dell’art. 81 cod. pen. è anch’essa realizzazione di un criterio legale di determinazione della pena […]. Ne consegue che detta applicazione, frutto di un criterio legale di trattamento, non porta all’elisione totale o parziale della pena prevista per il reato meno grave, ma alla sostituzione ex lege di detta sanzione con una sanzione diversa cui si perviene attraverso una riduzione proporzionale della incidenza già commisurata per i reati concorrenti (nell’ambito della nuova operazione di rideterminazione), con mantenimento della misura massima della pena prevista dalla legge”.
4. La decisione della prima sezione penale: il rinvio alle Sezioni Unite.
A fronte della (rinnovata) operazione ermeneutica e, alla luce della stessa, dell’intervenuto contrasto in ordine all’applicazione dell’art. 671 c.p.p., con particolare riguardo all’interpretazione del relativo secondo comma, la prima Sezione ha, pertanto, concluso per la necessità di rimettere la trattazione della questione alle Sezioni Unite, formulando il seguente quesito:
Se il giudice dell’esecuzione, in caso di riconoscimento della continuazione –ex art. 671 cod. proc. pen. – tra più violazioni di legge giudicate in distinte decisioni irrevocabili sia tenuto, in sede di determinazione della pena, al rispetto del limite del triplo della pena inflitta per la violazione più grave (art. 81, co. 1 e co. 2 cod. pen.) o se in tale sede trovi applicazione esclusivamente la disposizione di cui all’art. 671 co. 2 cod. proc. pen. (limite rappresentato dalla somma delle pene inflitte in ciascuna decisione irrevocabile).
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Amerio, Sulla continuazione in esecuzione: quale il limite massimo per la determinazione della pena? La questione rimessa alle Sezioni Unite, in Giurisprudenza Penale web, 2017, 5