Strategie di lotta alla criminalità di stampo mafioso (Tesi di laurea)
Prof. Relatore: Antonia Menghini
Ateneo: Università di Trento
Anno accademico: 2015-2016
La legislazione penitenziaria antimafia è materia di costante dibattito in dottrina come in giurisprudenza; molti sono infatti i profili meritevoli di approfondimento in vista di un’auspicabile e complessiva ridefinizione degli istituti coinvolti.
Pur affondando le proprie origini negli anni ’80 del secolo scorso, è solo con l’aprirsi del decennio successivo che venne introdotta una disciplina finalizzata in modo specifico al contrasto della criminalità mafiosa in fase di esecuzione penale; dirimenti in questo senso furono gli episodi stragisti dell’estate 1992, sulla cui onda emotiva il legislatore emanò una serie di provvedimenti di rigore, noti come ‘decretazione d’emergenza’.
L’espressione con cui vennero definite queste disposizioni è particolarmente emblematica: la reazione dello Stato alla recrudescenza del fenomeno mafioso fu ferma e decisa, ma soprattutto emergenziale; l’impressione che si evince dalla lettura dei resoconti stenografici dell’epoca è quella di un dibattito parlamentare svuotato di significato, di una mancanza di confronto dialettico tra le forze politiche in ragione della preponderante necessità di arginare nell’immediato l’azione intimidatoria con cui Cosa Nostra intendeva
imporre la propria superiorità.
Una legislazione siffatta comportava una serie di limiti evidenti: se l’unica ragione ispiratrice era fornire agli occhi dell’opinione pubblica una risposta severa e tempestiva, è chiaro che in tale prospettiva la disciplina emanata si giustificava in re ipsa, non sentendosi la necessità di coniugare le esigenze di neutralizzazione dei sodali mafiosi e di difesa dell’ordine pubblico e della sicurezza con le istanze garantiste proprie di un sistema giuridico avanzato.
Tale impostazione appare al giurista contemporaneo stigmatizzabile e non più tollerabile, perché svilisce i principi di cui si fa latore uno Stato di diritto, che dovrebbe ripudiare presunzioni di pericolosità sociale basate sul mero titolo di reato. Si badi, però, che con quest’affermazione non si intende di certo svilire la gravità dei reati commessi da talune consorterie criminali; si vuole semmai affermare che alle provocazioni della malavita organizzata, che rifiuta le regole statuali per imporne delle altre su un piano antistatuale, non si può rispondere ricusando in toto i principi che l’ordinamento democraticamente si è dato, ma è necessario apprestare strumenti che bilancino i diversi interessi coinvolti, egualmente meritevoli di tutela in ragione del loro rango costituzionale.
La previsione di un sistema differenziato di esecuzione penale nasce dal considerare i delinquenti mafiosi come un corpo estraneo alla società e, di conseguenza, come soggetti nei cui confronti la ragion di Stato risulta prevalente rispetto alla tutela dei loro
diritti fondamentali.
Nei confronti degli autori di tali condotte è misconosciuta la possibilità di una reale risocializzazione, di un loro recupero ai valori di civile convivenza; di fronte a questa tipologia di reo l’ordinamento si arrende e ammette il fallimento dell’ideale rieducativo, impossibile da attuare quando si ci rapporta con consorterie che impongono le proprie regole e ripudiano quelle democratiche.
Non vi è dubbio che in questi casi una risocializzazione della persona sia molto più complessa, ma da questa considerazione non può derivare un indietreggiamento delle istituzioni, che devono assumersi la responsabilità di apprestare mezzi e strumenti volti quantomeno a tentare questa via.
Ciò in ragione del principio che informa l’ordinamento giuridico odierno, ovvero quello di eguaglianza, cristallizzato nella Carta costituzionale come nelle convenzioni internazionali.