Esposizione all’amianto: la Cassazione applica i principi stabiliti dalla sentenza Franzese – Cass. Pen. 30206/2013
Cass. Pen., sez. IV, 12 luglio 2013 (ud. 28 marzo 2013), n. 30206
Presidenta Bianchi, Relatore Dovere
Depositata il 12 luglio 2013 la sentenza n. 30206 della quarta sezione penale in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro.
La vicenda trae origine dal comportamento omissivo degli organi amministrativi di una società che trattava amianto i cui dipendenti sono risultati affetti da malattie professionali connesse a tale tipologia di sostanza.
L’amministratore, imputato nel procedimento penale per colpa generica per aver omesso di adottare misure di prevenzione finalizzate ad evitare le inalazioni di polveri di amianto durante l’attività lavorativa, era stato assolto – sia in primo che in secondo grado – dall’accusa di omicidio colposo e di lesioni colpose per avere cagionato il decesso di otto dipendenti e lesioni personali colpose ad un ulteriore lavoratore.
Per i giudici di appello gli “elementi probatori acquisiti non consentivano di affermare che l’esposizione a sostanze nocive durante il periodo in cui l’imputato aveva assunto una posizione apicale all’interno della società abbia avuto una concreta incidenza causale sul verificarsi degli eventi lesivi oggetto di contestazione e ciò in ragione della natura delle patologie, della brevità del lasso temporale durante il quale il C. aveva assunto la posizione di garanzia rispetto all’intero periodo di latenza della malattia, nonché in considerazione della significativa contrazione delle ore lavorative verificatasi in tale periodo.(Sez. 4, n. 40802 del 18/09/2008 – dep. 31/10/2008, Sez. 4, n. 43645 del 11/10/2011 – dep, 24/11/2011)”
La Suprema Corte, nel ritenere infondati i ricorsi, ha ricordato come, in tema di malattie derivanti dall’esposizione all’amianto, è certamente vero che la responsabilità penale deve essere affermata non solo quando si sia determinata l’insorgenza della malattia ma anche quando si sia prodotto un aggravamento della medesima o una riduzione significativa del tempo di latenza. E’ principio ripetutamente affermato da questa Corte quello per il quale “sussiste il nesso di causalità tra condotta ed evento dannoso – nella specie legato all’inalazione di polveri di amianto – anche quando non si possa stabilire il momento preciso dell’insorgenza della malattia tumorale, in quanto, a tal fine, è sufficiente che la condotta omissiva dei soggetti responsabili della gestione aziendale abbia prodotto un aggravamento della malattia o ne abbia ridotto il periodo di latenza, considerato che anche quest’ultimo incide in modo significativo sull’evento morte, riducendo la durata della vita” (ex multis, Sez. 4, n. 24997 del 22/03/2012 – dep. 21/06/2012, Pittarello e altro, Rv. 253303).
Tuttavia, la dichiarazione di responsabilità non può sottrarsi alla necessità di dare corso alla verifica della sussistenza del nesso causale nel caso specifico, utilizzando le regole definite dalla giurisprudenza di legittimità, a partire dalla già citata sentenza Franzese: “nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicchè esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva“.
Di talchè, “l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio” (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002 – dep. 11/09/2002, Franzese, Rv. 222138 e 222139).
Ciò posto – continuano i giudici – con specifico riferimento al settore che qui occupa, ciò impone di non fermarsi all’accertamento della c.d. causalità generale (ovvero della astratta relazione causale tra il fattore assunto a primo termine ed il tipo di evento che interessa) risultando necessario ancora accertare la c.d. causalità singolare.
Pertanto, non è sufficiente poter affermare che l’esposizione alle polveri di amianto viene indicata da leggi scientifiche universali o probabilistiche come causa dell’asbestosi, del tumore polmonare, del mesotelioma pleurico e delle placche pleuriche – per restare alle patologie che qui vengono in considerazione – ma va indagato se possa dirsi accertato che la malattia che ha afflitto il singolo lavoratore è insorta o si è aggravata o si è manifestata in un più breve tempo di latenza per effetto dell’esposizione al fattore di rischio, così come si è verificata.
Orbene, nel caso di specie, la decisione impugnata risulta del tutto in linea con il più recente insegnamento di questa Corte ritenendo non adeguatamente dimostrata la relazione causale tra l’esposizione al fattore di rischio e l’evento dannoso in quanto non adeguatamente noti i meccanismi biologici attraverso i quali l’esposizione all’asbesto genera il cancro; quanto al caso di mesotelioma, la Corte di Appello ha assunto la tesi della patologia non dose-dipendente sulla scorta di quanto riportato dai periti concludendo che, che per la brevità del periodo di esposizione coincidente con la posizione apicale del C., non sussistesse la prova che essa abbia avuto incidenza almeno sul periodo di latenza della malattia, abbreviandolo; infine, per le placche pleuriche si è ancora una volta ritenuto trattarsi di patologia non dose-dipendente e con un lungo periodo di incubazione, ricordando che i periti hanno escluso che essa possa essere correlata all’esposizione alle fibre di amianto nel periodo considerato.
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