ARTICOLICONTRIBUTIDALLA CONSULTA

Dichiarata (probabilmente invano) la illegittimità costituzionale dell’articolo 187 sexies T.U.F., nella parte in cui prevede la confisca amministrativa obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.

in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 5 – ISSN 2499-846X

Corte costituzionale, Sentenza 6 marzo – 10 maggio 2019, n. 112
Presidente Lattanzi, Redattore Viganò

Con la sentenza in epigrafe, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 187 sexies T.U.F., che prevede (oggi, a seguito delle più recenti riforme) la confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prodotto o del profitto degli illeciti amministrativi di manipolazione del mercato (art. 187 bis) e di abuso di informazioni privilegiate (art. 187 ter).

La norma è stata dichiarata contraria alla Costituzione “nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto”.

Prima di vedere in dettaglio le motivazioni della sentenza, è opportuno ricordare che la norma de quo è stata oggetto di recente riforma ad opera del D. lgs. n. 107/2018. Nella precedente versione infatti l’art. 187 sexies imponeva alla CONSOB l’applicazione della confisca amministrativa “del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo”. La citata novella ha invece espunto la nozione di beni utilizzati, sicché la confisca amministrativa, fino alla declaratoria di incostituzionalità, colpiva soltanto il prodotto o il profitto.

Con la pronuncia in analisi, sebbene la questione dedotta fosse riferita alla norma nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dal D. lgs. n. 107/2018, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 187 sexies come oggi in vigore.

1. Anzitutto, i fatti in breve. La questione di legittimità proveniva dalla Cassazione civile, Sezione seconda, cui era stato sottoposto un caso di illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, nell’ambito del quale un soggetto aveva acquistato azioni di una società quotata della quale era socio e consigliere di amministrazione, sulla base del possesso dell’informazione privilegiata relativa all’imminente lancio di un’offerta pubblica di acquisto volontaria e totalitaria di tale società, promossa da altra società costituita ad hoc e della quale egli stesso era socio. Il prezzo di acquisto delle azioni era stato pari a circa 123.175 euro, il valore di realizzo era consistito in 149.760 euro, con conseguente (illecito) profitto pari a circa 26.580 euro.
Per tali fatti la CONSOB aveva irrogato, in data 2 maggio 2012, le seguenti misure: (i.) una sanzione pecuniaria di 200.000 euro; (ii.) la confisca di beni immobili fino a concorrenza dell’importo di 149.760 euro, pari all’intero valore delle azioni acquistate mediante la condotta sopra descritta.
Il Giudice a quo, rimettendo la questione odierna, dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 187 sexies, nella misura in tale norma imponeva la confisca non solo del profitto dell’illecito, bensì anche del suo prodotto e dei beni utilizzati per commetterlo. Tali dubbi riguardavano la proporzionalità di siffatta misura, sotto il profilo degli articoli 3, 117, comma 1, Cost. e 49 CDFUE, nonché la sua compatibilità con le norme poste a tutela del diritto di proprietà, vale a dire gli articoli 42, 117, comma 1, Cost., 1 Prot. addiz. CEDU e 17 CDFUE.

2. La Consulta ha pienamente accolto la questione, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 187 sexies nella parte in cui, prima delle recenti modifiche, imponeva alla CONSOB l’applicazione della confisca amministrativa obbligatoria, diretta o per equivalente, “del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto”, nonché nella parte in cui, sino ad oggi, a seguito delle recenti modifiche, imponeva alla CONSOB l’applicazione della confisca amministrativa obbligatoria, diretta o per equivalente, “del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto”.

3. Preliminarmente, la Corte ha notato che “la costante giurisprudenza di questa Corte riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle pene da comminare per ciascun reato (…). Tale discrezionalità è soggetta, tuttavia, a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso (…)” [para 8.1.1].
In particolare, “il sindacato sulla proporzionalità della pena si è storicamente affermato, nella giurisprudenza di questa Corte, anzitutto sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. (…)” dal quale “si è tratta la naturale implicazione relativa alla necessità che a fatti di diverso disvalore corrispondano diverse reazioni sanzionatorie” [para 8.1.2].
Peraltro, “la valorizzazione, accanto all’art. 3 Cost., del parametro rappresentato dall’art. 27, terzo comma, Cost. (…) ha condotto in altre pronunce questa Corte (…) a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta (…)” [para 8.1.3].
Per ciò che rileva in questa sede, inoltre, si è ricordato che la Corte stessa “ha esteso in molteplici occasioni alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente ‘punitivo’ talune garanzie riservate dalla Costituzione alla materia penale”, fra cui il divieto di retroattività in peius, l’obbligo di retroattività in mitius, l’obbligo di precisione del precetto sanzionatorio [para 8.2.1].
Alla luce di ciò, “non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative” [para 8.2.2]; esso “trae la propria base normativa (…) dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione”, le quali, in caso di misure ablative che incidono sul patrimonio dell’autore del fatto, sono certamente racchiuse nell’art. 42 Cost., posto a presidio del diritto di proprietà [para 8.2.3].

4. Riconosciuta, dunque, l’operatività anche in ambito amministrativo del canone della proporzionalità tra la gravità della sanzione e la gravità del fatto, la Corte ha affrontato la questione se la misura prevista ex art. 187 sexies sia o meno, in astratto, rispettosa di detto principio. Nel far ciò, ha scelto, anzitutto, di ricordare le precise nozioni, troppo spesso oggetto di confusione, di profitto e prodotto dell’illecito, nonché di beni utilizzati per commetterlo, con precipuo riguardo alla materia de qua, vale a dire quella degli abusi di mercato.
Prodotto. Esso consiste nel risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquistate mediante il reato. In altre parole, costituiscono “prodotto” tutte le cose materiali che, in una prospettiva puramente causale, “derivano” dalla commissione dell’illecito medesimo. In questa logica, il prodotto dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate non può che essere rappresentato dall’insieme degli strumenti acquistati, ovvero dall’intera somma ricavata dalla loro vendita. Nel caso di specie, dunque, il prodotto è consistito in 149.760 euro [para 8.3.1].
Profitto. Esso consiste, invece, nella utilità economica conseguita mediante la commissione dell’illecito. Nelle ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, il profitto consiste dunque nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in cui l’informazione privilegiata della quale l’agente disponeva diviene pubblica, calcolato sottraendo al valore degli strumenti finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall’autore per compiere l’operazione, così da quantificare l’effettivo guadagno (in termini finanziari, la “plusvalenza”). Come visto sopra, il profitto dell’illecito è stato pari a circa 26.580 euro [para 8.3.2].
Beni utilizzati. In tema di abusi di mercato, essi non possono che consistere nelle somme di denaro investite nella transazione, in questo caso pari a circa 123.175 euro [para 8.3.3].

5. Ricostruite le tre nozioni, a giudizio della Corte non v’è dubbio che “in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del ‘profitto’ ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo all’autore, la confisca del ‘prodotto’ (…) così come quella dei ‘beni utilizzati’ per commettere l’illecito (…) hanno un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore. Tali forme di confisca assumono pertanto una connotazione ‘punitiva’, infliggendo all’autore dell’illecito una limitazione al diritto di proprietà di portata superiore (e, di regola, assai superiore) a quella che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito” [para 8.3.4].

6. Sulla base di questa ricostruzione, e dopo aver ricordato che per fatti di abuso di informazioni privilegiate la confisca ex art. 187 sexies è sempre posta accanto ad una (gravosa) sanzione amministrativa ex art. 187 bis, la Corte ha ritenuto che “la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità (…) e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere ‘punitivo’ come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati”.
Tali risultati sproporzionati sono evidenti nel caso di specie, ove l’autore del fatto è stato condannato ad una sanzione di 200 mila euro ed una confisca di quasi 150 mila euro, per un importo complessivo pari a tredici volte il profitto dell’illecito, come visto pari a poco più di 26 mila euro [para 8.3.6].

7. Sulla base di queste argomentazioni, la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale della norma censura, nel senso sopra ricordato.

***

La pronuncia in commento si mostra pregevole sotto alcuni profili.

Anzitutto perché, per una volta, il canone della proporzionalità tra fatto e sanzione è utilizzato non per fare salvo il cumulo di sanzioni previsto dalla legge (come da troppo tempo va facendo la giurisprudenza ad ogni livello), bensì, almeno in parte, per eliminarlo. E questo approccio è condivisibile: chi scrive ritiene che la proporzionalità della sanzione debba essere garantita non solo in concreto dal Giudice, bensì anche in astratto dal Legislatore. Diversamente non vi sono garanzie sufficienti che tale canone sia effettivamente rispettato nella prassi; proprio la vicenda alla base della pronuncia è buona testimone di ciò che si vien dicendo. E questo è ancora più vero se, come oggi ci viene ricordato, la proporzionalità è parametro di rango costituzionale; la lettera stessa della legge, non solo la sua applicazione, deve allora conformarvisi.

Peraltro, la sentenza è certamente di aiuto all’interprete nella esatta individuazione del prodotto e del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo; si tratta di nozioni spesso confuse tra loro, eppure tutt’altro che sovrapponibili, nonché di importanza dirimente nella prassi applicativa. Basti pensare quanto grande, in termini meramente economici, può essere la differenza tra l’una e l’altra voce; anche su questo punto, il caso di specie è illuminante.

Al tempo stesso, la sentenza lascia (giustamente, alla Corte non competendo altro che dirimere la questione strettamente rilevante per il caso di specie) una serie di questioni aperte, alcune delle quali potrebbero renderla priva dei risultati concreti, cui invece si vorrebbe conducesse. Di seguito si segnalano i temi controversi, che emergono da questa analisi “a caldo”.

1. La pronuncia odierna, seppure di intento pregevole, rischia di non garantire l’auspicata proporzionalità, in tutti i casi in cui l’illecito amministrativo costituisce anche illecito penale ex art. 184 T.U.F. (la questione si pone identica nei procedimenti penali di manipolazione del mercato ex art. 185 T.U.F.). In questi casi, infatti, l’art. 187 T.U.F. impone, salve le sanzioni penali e amministrative e salva la confisca amministrativa (ormai del solo profitto), di applicare la confisca penale, anche per equivalente, “del prodotto o del profitto conseguito dal reato e dei beni utilizzati per commetterlo”. In altre parole, nei casi di effettiva applicazione del doppio binario si presenta alla porta ciò che si è gettato dalla finestra; va allora auspicata una interpretazione dell’art. 187 T.U.F. conforme a quest’ultima pronuncia costituzionale.

2. Pure la lodata distinzione fra prodotto, profitto e beni utilizzati, con la conseguente eliminazione dall’oggetto della confisca di tutto ciò che non costituisca profitto, rischia di non garantire, in concreto, la proporzionalità tra fatto e risposta sanzionatoria. Si consideri, a tal proposito, l’orientamento prevalente in seno alla Corte di cassazione proprio con riguardo alla nozione di profitto degli abusi di mercato, secondo cui “ai fini dell’adozione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca, la nozione di profitto del reato coincide con il (…) complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito (…), dovendosi escludere, per dare concreto significato a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico, (ciò perché) il crimine non rappresenta, in alcun ordinamento, un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del profitto netto finirebbe per riversare sullo Stato (…) il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l’ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica” (Cass. n. 24558/2013, Cass. n. 4885/2019). In altre parole, oggi il cd. diritto vivente include nella nozione di profitto confiscabile anche quella di prodotto, così eludendo il portato della sentenza in commento; non v’è che da sperare, anche su questo punto, in una diversa interpretazione, che sia conforme a Costituzione.

3. V’è poi da segnalare un profilo più generale, che riguarda il canone della proporzionalità, non solo della confisca, ma dell’intero apparato sanzionatorio per la materia degli abusi di mercato. Difatti, sorge inevitabile e provocatoria la domanda: se il cumulo tra una sanzione amministrativa pecuniaria e una confisca amministrativa del prodotto dell’illecito va considerato contrario al principio costituzionale di proporzionalità, va invece ritenuto conforme a siffatto principio un cumulo, imposto dalla legge alle sole persone fisiche, tra: (i.) la sanzione penale detentiva e pecuniaria (artt. 184, 185 T.U.F.), (ii.) le sanzioni penali accessorie (art. 186 T.U.F.); (iii.) la sanzione amministrativa pecuniaria (artt. 187 bis, 187 ter T.U.F.), (iv.) le sanzioni amministrative accessorie (187 quater T.U.F.)? La risposta, provocatoria quanto la domanda, potrebbe forse essere negativa, sol che si segua l’insegnamento che oggi ci viene dalla Corte, secondo cui la legge astratta anzitutto, non solo la sua concreta applicazione, deve prevedere sanzioni proporzionate al fatto. Probabilmente, infatti, la sanzione complessiva astrattamente prevista da tutte le norme evocate non si mostra proporzionata al fatto tipico di abuso di mercato.

Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Roccatagliata, Dichiarata (probabilmente invano) la illegittimità costituzionale dell’articolo 187 sexies T.U.F., nella parte in cui prevede la confisca amministrativa obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 5