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Rapina impropria: il rapporto tra sottrazione e vigilanza della vittima e la (non) necessità dell’impossessamento della cosa sottratta

in Giurisprudenza Penale, 2019, 10 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sez. II, 11 luglio 2019 (ud. 24 maggio 2019), n. 30476 
Presidente Verga, Relatore Pacilli

Con la pronunzia in epigrafe la Corte di cassazione interviene sulla questione dell’appartenenza dell’impossessamento al novero degli elementi costitutivi del delitto di rapina impropria, punito dall’art. 628 co. 2 c.p.

Dapprima, il supremo Consesso, a fronte del ricorso dell’imputato, che chiedeva che la propria azione delittuosa rifluisse nell’ipotesi tentata piuttosto che in quella consumata di rapina impropria, rammenta che, giusto il disposto dell’art. 628 co. 2 c.p., il trattamento sanzionatorio di cui al comma 1 del medesimo articolo si estende a chi «adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità».

Quindi, osserva il Collegio come la norma non richieda l’impossessamento quale elemento essenziale del reato, poiché il tessuto letterale della fattispecie incriminatrice richiama il solo concetto di sottrazione; quest’ultima è definibile quale condotta che esclude l’esplicazione dei poteri del legittimo detentore sulla cosa, recidendo la potenziale relazione funzionale ad libitum che quest’ultimo può instaurare col bene; mentre l’impossessamento – richiesto ad esempio dall’art. 624 c.p., norma che punisce il furto, oltre che dall’art. 628 co. 1 c.p. – si qualifica quale condotta in grado di consentire a colui il quale abbia illecitamente appreso la cosa di esercitare poteri uti dominus sulla stessa, vale a dire di costituire una condizione di vera e propria signoria sulla cosa escludendo terzi dal relativo godimento.

Che l’impossessamento non sia elemento strutturale del delitto in parola – evidenzia chi scrive – è altresì attestato dal richiamo che l’art. 628 co. 2 c.p. fa al concetto di possesso come finalità del reo; il possesso, quale dominio di fatto sulla res, diventa infatti componente del dolo specifico, a testimonianza del fatto che la condotta punita non è quella che presuppone l’impossessamento, ma quella che mira all’instaurazione dello stesso (o a garantirsi l’impunità), da considerarsi pertanto fase del tutto futura ed eventuale e non attuale ed indefettibile.

Altro nodo dogmatico sciolto dalla sentenza che qui si annota concerne il rapporto tra le nozioni di sottrazione e impossessamento, da un lato, e quella di vigilanza della persona offesa, dall’altro.

La domanda, in altri termini, è: come si coordinano i concetti di sottrazione e impossessamento con il costante monitoraggio, ad opera della vittima, della condotta del reo? È possibile sottrarre la e/o impossessarsi della cosa quando la vittima mantiene inalterata la propria vigilanza sull’azione delittuosa?

Al quesito il Collegio risponde richiamando la nota sentenza delle Sezioni unite n. 52117 del 17 luglio 2014 (in C.E.D. Cass. n. 261186), la quale ha statuito in merito alla qualificazione giuridica della condotta furtiva consistente nel prelievo di merce dai banchi di un supermercato e nel successivo occultamento della refurtiva all’atto del passaggio davanti al cassiere, quando tutta la azione delittuosa si è svolta sotto il controllo costante del personale addetto alla vigilanza, intervenuto solo dopo che il soggetto attivo ha superato la barriera delle casse.

Sul punto, la Corte di legittimità nella sua più autorevole composizione ha statuito nel senso che a difettare nel caso di costante vigilanza della persona offesa (attuata personalmente o mediante la presenza sul posto di propri ausiliari o mediante l’uso di dispositivi elettronici, es. meccanismi c.d. “anti-taccheggio”), è proprio l’elemento strutturale dell’impossessamento, in quanto, fino a che il reo si trova sotto la sorveglianza del titolare della res, non potrà incarnare alcun potere di signoria sul bene.

La sentenza qui annotata trae dall’insegnamento delle Sezioni unite l’argomento secondo cui, mentre a difettare nell’ipotesi di controllo costante della vittima è l’impossessamento del bene, non può invece obiettarsi circa la concreta configurazione della fase sottrattiva, la quale, per dirla con la dominante impostazione dottrinale, consiste nell’eliminazione del potere materiale sulla cosa da parte del detentore e può anche non comportare una amotio dal luogo dove la stessa si trova purché, per effetto dell’azione posta in essere dall’agente, risulti di fatto impedito al detentore ogni potere di materiale controllo; quanto detto in effetti può ben verificarsi anche nel caso in cui l’apprensione si sia svolta sotto la supervisione della persona offesa, la quale è quantomeno posta in una condizione di impossibilità di esercitare i propri poteri sulla cosa.

In ossequio ai principi suesposti, circa l’assoluta compatibilità tra la fase sottrattiva ed il momento della vigilanza della vittima sull’azione illecita, la Corte sancisce che configura rapina impropria consumata la condotta di colui il quale abbia sottratto il bene al legittimo detentore, sebbene l’azione sia ricaduta sotto la sfera di vigilanza della vittima, e, successivamente abbia adottato violenza o minaccia contro taluno (la vittima o un terzo) per guadagnare il possesso della res e/o l’impunità, mentre si arresta allo stadio del tentativo (coerentemente con quanto affermato da Cass. S.U. n. 34952 del 19 aprile 2012, Rv. 253153) la condotta di chi abbia compiuto atti idonei diretti in maniera univoca a sottrarre il bene senza essere riuscito nell’intento, e perciò abbia poi posto in essere atti violenti o minacciosi nei confronti di taluno per guadagnare l’impunità (difettando, in assenza della apprensione del bene, la possibilità di assicurarsi il possesso del medesimo).

Come citare il contributo in una bibliografia:
F. Lombardi, Rapina impropria: il rapporto tra sottrazione e vigilanza della vittima e la (non) necessità dell’impossessamento della cosa sottratta, in Giurisprudenza Penale, 2019, 10