Le misure di prevenzione: delle pene senza delitto (Tesi di laurea).
Prof. relatore: Maurizio Bellacosa
Ateneo: Libera Università Internazionale degli Studi Sociali
Anno accademico: 2018/2019
Il conflitto tra ragioni del garantismo e quelle dell’efficienza è uno dei più delicati che la riflessione giuridica di matrice penalistica è chiamata a risolvere. Frutto acerbo del tentativo di bilanciare suddette istanze è il sistema prevenzionistico, disciplina a connotazione special-preventiva che sembra sempre più ingurgitare inasprite esigenze di difesa sociale e securitarismo.
Il progressivo protagonismo di un modello alternativo e antitetico rispetto alla tipicità penale – eppure costruito sulla base di fattispecie indiziarie di reato – desta notevoli interrogativi sulla sostenibilità di un armamentario che si afferma non già quale paradigma eccezionale bensì come disciplina ordinaria, rivolta a qualsivoglia categoria tipologica di criminalità.
Nell’analisi dei lineamenti di tale apparato non può ignorarsi il riferimento alla genesi storica di codesti istituti, che si crede possa fornire una lente di esegesi privilegiata nella valutazione dell’evoluzione (o involuzione) della normativa: questa la ragione per cui si è scelto di riservarvi il nostro Primo Capitolo.
In particolare, le misure di prevenzione risalgono alla legislazione sabauda e si atteggiano quali strumenti di controllo impostati su di un’aperta concezione soggettivistica e sostanzialistica della devianza quale condizione personale e sociale (si pensi alla prevenzione-repressione dell’oziosità e vagabondaggio).
Si profila così sin dagli albori dello Stato unitario una deformazione del sistema penale di stampo classico-liberale per via del rigoglioso sviluppo di un canale differenziato volto a recepire le urgenze repressive della borghesia di governo interessata a neutralizzare l’area della marginalità sociale pericolosa: ecco l’emergere di un paradigma parallelo, ammantato dall’alone del sospetto e dalla sommarietà dell’accertamento. Di qui il delinearsi di un duplice livello di legalità, che rappresenta la dimensione penale della costituzione materiale: quello delle astratte idealità liberali (la giustizia per galantuomini) e quello del concreto pragmatismo nella gestione del fenomeno criminale (il codice dei birbanti).
Peraltro, è indicativo il fatto che proprio nei momenti di maggiore difficoltà per il Paese – che si sia trattato dell’urgenza di fronteggiare il fenomeno del brigantaggio, di quello terroristico o mafioso – lo strumentario prevenzionistico abbia trovato nuovo vigore. D’altra parte, è ben noto che il movente del clima emergenziale legittima l’utilizzo di strumenti più duttili e flessibili rispetto alla ‘rigidità’ del principio di legalità; strumenti destinati a essere tristemente cari al nuovo Stato etico fascista che ne istituzionalizza l’uso per fini politici. Principio di prevenzione e legge d’eccezione sembrano essere così le vere costanti dell’esperienza penalistica italiana.
E difatti nemmeno il neonato assetto costituzionale repubblicano sarà disposto a rinunciare al corpus degli istituti preventivi, anzi ripotenziato anche dalla possibilità di affiancarvi misure di carattere patrimoniale, di talché le diramazioni dell’efficientismo si muoveranno d’ora innanzi su un nuovo, potentissimo binario, di cruciale rilevanza pratica per il contrasto alla criminalità organizzata.
Si pone dunque il problema se istituti introdotti da leggi speciali dell’Ottocento, rivisitati dal regime fascista e rimodellati dalla giurisprudenza costituzionale più sensibile, siano oggi un’eredità utile o se siano un mero retaggio del passato duro a morire.
Non sembra nutrire dubbi il legislatore, che tende a dilatare costantemente l’universo prevenzionistico sino a ricomprendervi forme di pericolosità del tutto estranee alla ratio primigenia dell’apparato, manifestando una tendenza di avallo a scelte valoriali contingenti o a dinamiche di opportunità politica. Lungo questa linea si iscrivono altresì i recenti interventi novellistici di cui alla L. n. 161/2017 che estendono, tra gli altri, i destinatari delle misure a c.d. pericolosità qualificata agli indiziati di taluni reati contro la P.A., purché commessi in forma associata: lapalissiana declinazione di quel populismo penale volto a manipolare le componenti emotive secondo logiche di consenso.
La riflessione si accingerà a nutrirsi di considerazioni profondamente diverse a seconda che si tratti di misure personali ovvero patrimoniali in quanto, dati pure i differenti parametri assiologici di riferimento, i lineamenti normativi che strutturano la materia ne suggeriscono anche un diverso funzionalismo. La Seconda Parte dello studio privilegia dunque un’analisi critica della disciplina prevenzionistica attualmente vigente, che ci si augura possa offrire al lettore la giusta angolazione prospettica per valutare la legittimità della normativa, una volta calatesi nella pluridimensionalità dei parametri di tutela che la presidiano e, dunque, per la comprensione del Terzo Capitolo.
Ebbene, da un lato, troviamo le misure di prevenzione personali, che ci preoccupano non poco per l’inafferrabilità del loro stesso requisito sistemico, la pericolosità sociale; per la costruzione di fattispecie di prevenzione su parametri sfuggenti nonché per una disciplina sanzionatoria delle prescrizioni imposte con la misura dai connotati volutamente criminogenetici. Per non parlare del meccanismo di aggravanti a effetto speciale di diffuso impiego concepita dagli artt. 71, 72 e 73 del d.lgs. n. 159/2011 per numerosi reati che sembrano discendere dal mero status di soggetto sottoposto a misura personale o, ancora, dei c.d. effetti delle misure, vale a dire un sistema di interdizione a una lunga serie di provvedimenti di tipo abilitativo, autorizzativo o concessorio, in gran parte necessari per accedere ad attività imprenditoriali o professionali. In sostanza, parrebbe un vero e proprio tentativo di ostracizzare il sospetto dalle basi fondamentali della vita economica e associata.
Un simile apparato, spiccatamente de-socializzante, più che contribuire al ‘recupero’ o anche alla neutralizzazione del proposto, sembra nascondere le sinistre dinamiche, sottostanti gli antichi istituti prerepubblicani, di strumentalizzazione delle misure a fini di esclusione sociale.
Tutto sfuma nella prospettiva utilitaristica di uno Stato che sembra valersi dell’armamentario preventivo in chiave rimediale rispetto alle disfunzioni del sistema processuale e sanzionatorio penale.
Non meno rassicuranti le misure patrimoniali come la confisca ove si è ormai giunti a presunzioni di provenienza illecita del bene che prescindono dalla verifica dei coefficienti di pericolosità soggettiva, nonché ad ammettere l’ablazione dei beni per equivalente, addirittura anche nei confronti dei terzi. L’asserito finalismo preventivo sembra così scolorire a favore di un diverso inquadramento dogmatico.
La criticità dell’impianto normativo è acuita da un sistema di accertamento giurisdizionale in cui signoreggia la sommarietà delle forme e modalità procedurali di tipo inquisitorio, tuttavia – si badi – nemmeno la garanzia di un ‘giusto processo’ potrebbe arginare i rischi insiti in una normativa sostanziale pericolosamente carente.
Il quadro che si dipana inquieta un poco, sembra quasi che l’unica speranza per non scivolare nell’oscurità dell’arbitrio decisionale sia il “buon senso” del giudicante.
In tale contesto crediamo che la riflessione critica sul sistema prevenzionistico non possa essere procrastinata; e dello stesso avviso sembra essere la Corte di Strasburgo che ha recentemente puntato i suoi riflettori sulla normativa italiana, reputandola priva dei fondamentali requisiti di clarity, precision and foreseebility. Una pronuncia, la De Tommaso, che ha imposto un ripensamento in chiave ‘tassativizzante’ dell’intera disciplina prevenzionistica, culminato con le sentenze della Corte Costituzionale nn. 24 e 25 del 2019, autentiche “pietre miliari” nella definizione dello statuto garantistico dell’intero sistema.
Una conferma identitaria dell’apparato, quella operata dalla Consulta, che pur non sdrammatizzando il problema della sua legittimità, sembra svelare nuovi percorsi per la riconfigurazione di uno strumentario realmente coerente con il suo inquadramento sistematico.
Si crede, infatti, che non possa eludersi lo sforzo di ricondurre a logica il sistema, delineando alcune linee riformistiche che potrebbero scongiurare il rischio per cui l’indubbia portata afflittiva dell’apparato finisca per travolgere il modello epistemologico su cui si basa. Ci si augura che un simile approccio metodologico non venga tacciato di miopia dogmatico-esegetica nella misura in cui potrebbe risolversi nel tentativo tautologico di giustificare a posteriori una normativa che nasce come intrinsecamente viziata. Piuttosto, si è reputato doveroso, oltreché scientificamente più proficuo, monitorare i risultati positivi della complessa elaborazione giurisprudenziale e normativa in materia al fine di tratteggiarne una possibile via di salvezza, consapevoli della sicura rilevanza degli strumenti di ablazione patrimoniale nella lotta alla pervasività dell’infiltrazione mafiosa nel nostro Paese. Siamo dell’idea che ‘il fine non giustifichi i mezzi’ quando a essere implicati sono i diritti fondamentali della persona onde per cui un’estrema cautela guida la nostra mano nel tracciare un compromesso accettabile tra le ragioni dell’efficienza e quelle delle garanzie.
Nessuna pretesa di esaustività nella ricognizione o critica del sistema anima la presente riflessione, né si ambisce a fissare punti fermi che fungano da sostegno a ulteriori indagini (ci preme avvertire il lettore che, altrimenti, rimarrebbe deluso). Piuttosto, voglia leggersi codesto scritto come un phamplet che aspira ad ammonire su lacune e vuoti di tutela di cui l’apparato normativo risulta affetto, nonché a esortare maggiore ponderazione nel vagliarne la legittimità: l’augurio è quello di porre fine al pericolo – sempre in agguato – che lo strumentario si risolva in draconiane pene senza delitto.