La Cassazione sulla qualificazione del pagamento al socio di somme di denaro da parte della società poi fallita.
[a cura di Lorenzo Roccatagliata]
Cass. pen., Sez. V, Sent. 12 gennaio 2021 (ud. 20 novembre 2020), n. 852
Presidente Miccoli, Relatore Belmonte
Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione si è pronunciata, in tema di reati fallimentari, sulla corretta qualificazione dei trasferimenti di denaro dalla società, successivamente fallita, al socio.
Più in dettaglio, nel caso di specie la condotta contestata al ricorrente era consistita nell’avere ceduto, in qualità di amministratore di fatto della società fallita, a un prezzo largamente inferiore al suo valore reale, gli unici cespiti di proprietà della società, già socia ed amministratrice della società ed ex moglie del ricorrente. La compravendita era avvenuta oltre un anno prima del fallimento.
Tale cessione era avvenuta in compensazione con un credito vantato, nei confronti della società, dalla acquirente, in ragione di un finanziamento soci, poi postergato in bilancio, di cui era stata chiesta la restituzione, a distanza di oltre dieci anni, anche presentando ricorso per decreto ingiuntivo, il quale non venne mai opposto dalla società.
I Giudici del merito avevano qualificato il fatto secondo la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione.
La Corte ha ritenuto contraddittoria la motivazione della sentenza impugnata e ne ha disposto l’annullamento e il rinvio, dopo aver rilevato che “manca una specifica indicazione circa la effettiva natura di tale versamento, con conseguenti riflessi in punto di qualificazione giuridica del fatto distrattivo, alla luce dell’indirizzo giurisprudenziale che, a proposito della natura dei finanziamenti dei soci in favore della società, distingue, quanto agli effetti penali, tra l’ipotesi in cui l’indebita restituzione ai soci abbia riguardato finanziamenti effettuati dai medesimi nel corso della vita della società in conto capitale, dal caso della restituzione di versamenti effettuati a titolo di mutuo”.
Mutuando principi stabiliti dalla giurisprudenza civilistica, la Corte ha ritenuto che “i versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno, tuttavia, una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio, sicché essi non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società, e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo per effetto dello scioglimento della società, e nei limiti dell’eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione, fermo restando che tra la società ed i soci può viceversa essere convenuta l’erogazione di capitale di credito, anziché di rischio, e che i soci possono effettuare versamenti in favore della società a titolo di mutuo (con o senza interessi), riservandosi in tal modo il diritto alla restituzione anche durante la vita della società”.
Alla luce di tali considerazioni, il Collegio ha concluso che “il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società; al contrario, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale”.