La sentenza della Corte di Assise di Brescia sul delitto commesso in preda ad un «delirio di gelosia» (caso Gozzini)
[a cura di Guido Stampanoni Bassi]
Corte di Assise di Brescia, Sezione I Penale, 21 dicembre 2020 (ud. 9 dicembre 2020)
Presidente Relatore Roberto Spanò
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda (cd. “caso Gozzini), le motivazioni della sentenza con cui la Corte di Assise di Brescia ha assolto un imputato dall’addebito ascrittogli (consistente nell’aver cagionato la morte della moglie) «in quanto il medesimo, al momento del fatto, non era imputabile per vizio totale di mente» determinato da un «delirio di gelosia».
La vicenda – si legge nelle motivazioni – «presenta profili inquietanti proprio perché l’impulso omicida si è infiltrato nella mente dell’imputato in modo silente, ma con insistenza ossessiva, fino a deflagrare il mattino del fatto in una “spinta irrefrenabile”, ricalcando lo schema tipico della sindrome delirante, ove il disturbo non interferisce di norma con la quotidianità». Un tema – quello della gelosia – che la stessa Corte definisce «delicato e complesso, da non banalizzare mediante equivoci concettuali e linguistici».
Vanno in particolare tenuti ben distinti – si legge nelle motivazioni – «il delirio da altre forme di travolgimento delle facoltà di discernimento che, non avendo base psicotica, possono e debbono essere controllate attraverso la inibizione della impulsività ed istintualità. Appare necessario, dunque, non confondere i disturbi cognitivi con le episodiche perdite di autocontrollo sotto la spinta di impellenti stimoli emotivi; la liberazione dell’aggressività in situazioni di contingenti crepuscoli della coscienza con la violenza indotta dalla farneticazione nosologica; il “movente” con il “raptus” e “l’allucinazione”; il femminicidio con l’uxoricidio».
E’ chiara – continua la Corte di Assise – «la profonda differenza tra la gelosia delirante, quale sintomo di una patologia psichiatrica, dalla gelosia come stato d’animo passionale, tale da determinare impulsi violenti improvvisi e incontrollati all’esito di acuti stati di tensione».
Citando un passaggio di una consulenza tecnica, la Corte specifica che «nella impulsività patologica colui che agisce comprende di fare una cosa sbagliata, ma non riesce a controllarsi; nel caso del delirio, la situazione è capovolta poiché ad essere colpita primariamente dalla visione distorta della realtà è invece la capacità di intendere; quella di volere ne risulta viziata di conseguenza. Paragonare le due condizioni è un errore enorme perché si crea un parallelismo tra una persona che ha un disturbo di natura psicotica con una persona che fa una scelta di agire, che può essere più o meno impulsiva, più o meno motivata, più o meno razionale, però può scegliere; l’imputato non poteva scegliere».
Tutti i testi escussi – prosegue la sentenza – «hanno descritto i coniugi come una coppia affiatata ed avente un solido legame affettivo: mai l’uomo era trasceso ad atti di violenza o di vessazione di qualsivoglia natura e non vi erano inoltre quei segni premonitori che costituiscono la caratteristica tipica (seppur non esclusiva) del “femminicidio”, come riferito all’unisono da parenti, amici e vicini di casa».
Quanto alla formula assolutoria, i giudici hanno chiarito che «la Corte non intende certo riservare all’imputato un salvacondotto o un trattamento indulgente a fronte della perpetrazione di un’azione orribile, ma semplicemente tener conto di un elementare principio di civiltà giuridica, quello della funzione rieducativa della pena, secondo cui non può esservi punizione laddove l’infermità mentale abbia obnubilato nell’autore del delitto la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento».