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Caso Regeni e conoscenza del procedimento da parte degli imputati egiziani: la sentenza della Cassazione

Cassazione Penale, Sez. I, 9 febbraio 2023 (ud. 15 luglio 2022), n. 5675
Presidente Mogini, Relatore Tardio

Segnaliamo ai lettori, in merito al procedimento sulla morte di Giulio Regeni avvenuta al Cairo nel 2016, la decisione della Corte di Cassazione sul ricorso – presentato dalla Procura di Roma – contro l’ordinanza con cui l’11 aprile 2022 il GUP del Tribunale di Roma (di fronte al quale l’udienza preliminare era ripresa dopo la decisione della Corte di Assise di dichiarare la nullità della declaratoria di assenza e del conseguente decreto che dispone il giudizio), dopo aver preso atto della impossibilità di effettuare le notifiche personalmente agli imputati, aveva sospeso il procedimento, ex art. 420-quater c.p.p. disponendo, contestualmente, nuove ricerche.

I giudici di legittimità (che hanno ritenuto il ricorso inammissibile) hanno ritenuto l’ordinanza «non affetta da abnormità, andando la stessa – al pari del provvedimento della Corte di assise di Roma in data 14 ottobre 2021, che ha dichiarato nulla la precedente declaratoria di assenza, e il decreto che dispone il giudizio adottati nei confronti degli imputati all’udienza preliminare del 25 maggio 2021 – esente da qualsivoglia rilievo di legittimità, per essere conforme a diritto l’accertamento delle condizioni giustificative della disposta sospensione del processo».

Sia l’ordinanza del GUP del Tribunale di Roma oggetto di impugnazione sia il provvedimento della Corte di assise di Roma del 14 ottobre 2021 – si legge nella decisione – «hanno fatto buon governo degli insegnamenti delle Sezioni Unite. Hanno infatti correttamente escluso che, a fondamento della pretesa effettiva conoscenza da parte degli imputati del contenuto dell’accusa e della vocatio in iudicium, possano essere addotti gli elementi valorizzati dal Pubblico ministero ricorrente nel corso del procedimento, e ancora dinanzi a questa Corte».

Immune da vizi logici o giuridici «deve ritenersi la valutazione, giustificata in modo assai ampio e articolato dalla Corte di assise, secondo la quale le qualifiche soggettive degli imputati all’interno delle forze di polizia o degli apparati di sicurezza egiziani, la partecipazione di alcuni di essi al team egiziano incaricato di collaborare con gli inquirenti italiani nel caso Regeni, il fatto che alcuni di loro siano stati in quella sede sentiti quali persone informate dei fatti circa le indagini svolte in Egitto, e la rilevanza mediatica, anche internazionale, del processo italiano non sono concludenti al fine di ritenere raggiunta la certezza della conoscenza da parte degli imputati del processo a loro carico».

Ancora, la Corte ha ritenuto «corretta, congrua e priva di profili di illogicità la motivazione di detti provvedimenti là dove, tra l’altro, indica che i primi elementi sono precedenti all’esercizio dell’azione penale in Italia a carico degli imputati e ritiene congetturali e basate su indimostrate presunzioni le opposte valutazioni del Pubblico ministero circa una necessaria e generalizzata osmosi informativa all’interno dei servizi di sicurezza egiziani, ovvero in ordine alla necessaria conoscenza che i medesimi imputati avrebbero in ogni caso tratto dai media internazionali, in particolare da quelli in lingua inglese o araba, circa le precise cadenze del processo instaurato in Italia nei loro confronti».

Lo stesso può dirsi – prosegue il collegio – quanto alla «volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo” predicata dal Pubblico Ministero ricorrente.

A tal proposito, la Corte ha ricordato come «le Sezioni Unite Ismail abbiano puntualmente rimarcato che si deve trattare all’evidenza di condotte positive, rispetto alle quali si rende necessario un accertamento in fatto, anche quanto al relativo coefficiente psicologico. Il ricorso evoca, invece, come antidoverose delle condotte meramente omissive – quali la mancata elezione di domicilio dinanzi all’autorità giudiziaria italiana, la mancata nomina di un difensore di fiducia, ecc. – che, se da un lato presuppongono esse stesse l’effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, risultando comunque tutt’altro che doverose, dall’altro esulano per loro natura dal perimetro di rilevanza disegnato dalle Sezioni Unite ai fini del riconoscimento della sussistenza della “volontaria sottrazione”».

In conclusione – osserva il Collegio – «il perseguimento delle condotte criminose, anche se efferate e ignominiose quali quelle oggetto di imputazione, deve passare, in uno Stato di diritto, attraverso il rispetto delle regole del giusto processo regolato dalla legge, che si svolga nel pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti».

Redazione Giurisprudenza Penale

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