Caso Ilva: le motivazioni con cui la Corte di Assise di Appello di Lecce ha annullato la sentenza della Corte di Assise di Taranto
Corte di Assise di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, 23 settembre 2024 (ud. 13 settembre 2024)
Presidente dott. Antonio Del Coco
Segnaliamo ai lettori, con riferimento al caso Ilva, un estratto delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di Assise di Appello di Lecce ha annullato, ai sensi dell’art. 24 c.p.p. (“decisioni del giudice di appello sulla competenza“), la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Taranto con contestuale trasmissione degli atti, per competenza, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza.
La Corte di Assise – si legge nella sentenza – «per escludere l’applicabilità della competenza derogatoria di cui all’art. 11 c.p.p., aveva attribuito rilievo alla circostanza secondo la quale uno dei magistrati al momento della costituzione di parte civile aveva, seppure da poco, cessato le sue funzioni e l’altro aveva cessato di appartenere all’ordine giudiziario nel lontano 2005, prima dell’avvio del procedimento penale (2010)».
In sostanza, «con specifico riferimento a questi due magistrati, il giudice di primo grado aveva ritenuto che l’art. 11 c.p.p. presupponga non soltanto che il magistrato eserciti o abbia esercitato le sue funzioni nello stesso distretto di Corte di Appello del giudice competente secondo le regole ordinarie, ma, anche, che la qualità di magistrato debba sussistere nel momento dell’assunzione formale della qualità di indagato, imputato, persona offesa, danneggiato dal reato».
I giudici di appello evidenziano che «il criterio di cui all’art. 11 c.p.p., al pari di ogni altra regola sulla competenza, indica l’autorità giudiziaria a cui è devoluta la cognizione di ogni singolo procedimento penale riguardante un magistrato a partire dalla fase delle indagini; pertanto, tale competenza va verificata con riguardo alla situazione di fatto esistente al momento della commissione del reato». In altre parole, «lo stretto collegamento esistente tra le regole generali determinative della competenza e l’art. 25, primo comma, Cost., impone di ancorare al reato ciascuno dei criteri normativamente prefissati e, dunque, non solo al luogo ma anche al tempo di commissione dello stesso, e comunque a dati obiettivi predeterminati ed automatici, idonei a soddisfare il principio di precostituzione del giudice».
Nell’ipotesi derogatoria di cui all’art. 11 c. 1 c.p.p. – si legge nella sentenza – «dunque, una volta commesso un reato, va individuata immediatamente la competenza a conoscerne sulla base dei criteri ordinari stabiliti dagli artt. 8 – 10 c.p.p.: se, però, il reato coinvolge un magistrato, per averlo commesso o per esserne stato vittima (nell’accezione più ampia), è opportuno procedere ad un ulteriore accertamento sul seguente aspetto: se, nel distretto in cui si trova il giudice competente, quel magistrato eserciti le sue funzioni al momento dell’avvio del procedimento o le abbia esercitate in precedenza, vale a dire al momento del fatto. In tal caso, la competenza andrà individuata ai sensi dell’art. 11, primo comma, c.p.p., posto che il momento di commissione del fatto è determinante ai fini dell’attribuzione della competenza».
Fermo restando il riferimento alla qualità di magistrato esistente al momento del fatto, e di cui al primo comma dell’art. 11 c.p.p., «può assumere rilievo anche quella esistente al momento di assunzione delle qualifiche procedimentali ritenute rilevanti, a conferma della ratio posta alla base del dettato normativo: garantire, nella massima misura possibile, l’apparenza di terzietà ed imparzialità dell’ufficio giudiziario chiamato a giudicare i fatti che coinvolgono un collega, che, per particolari rapporti lavorativi intrattenuti con lo stesso, potrebbe sfruttare una “rendita di posizione” all’interno dell’ufficio giudicante».
Se è questa la ratio della disposizione di cui all’art. 11 c.p.p. – prosegue la Corte di Assise di Appello – «la fuoriuscita dall’ordine giudiziario al momento dell’assunzione formale della qualità di indagato, imputato, persona offesa o danneggiata dal reato è del tutto irrilevante perché il “vizio” che giustifica il criterio derogatore di cui all’art. 11 c.p.p. si è già manifestato».
Secondo la Corte, «questa interpretazione trova ulteriore conferma nell’indiscussa competenza dell’Ufficio giudiziario determinato ai sensi dell’art. 11 c.p.p. in relazione alle stragi del 1992 in cui persero la vita indimenticabili Colleghi e gli uomini delle scorte per mano di affiliati ad organizzazioni mafiose. In tali casi, nonostante l’avvenuta cessazione dell’appartenenza all’ordine giudiziario, coincidente con il decesso, il procedimento penale a danno di ignoti, successivamente instaurato, era stato appannaggio del capoluogo del distretto di Corte d’Appello individuato secondo il disposto di cui all’art. 11 c.p.p.».
In conclusione, «l’ulteriore presupposto richiesto dalla Corte di Assise – vale a dire la permanenza della qualità di magistrato al momento dell’assunzione formale di uno dei ruoli indicati dall’art. 11 c.p.p. – appare introdurre un elemento discrezionale talvolta rimesso alla scelta del P.M. e/o dello stesso interessato».
Ad avviso dei giudici di secondo grado «deve, invece, ritenersi infondata la tesi che vorrebbe individuare in ciascuno dei magistrati che abitano, o che sono proprietari di immobili nelle zone circostanti lo stabilimento ILVA, per ciò solo, persone offese o danneggiate dai reati in materia di inquinamento ambientale».
Nei reati che coinvolgono un numero indeterminato di persone, «l’impossibilità di identificare i potenziali danneggiati – vale a dire coloro i quali ritengono di avere subito, in concreto, un danno “iure proprio” – non permette di ritenere che, per il solo fatto di risiedere nel territorio interessato dall’attività inquinante, si possa essere individuati, men che meno astrattamente individuabili, come danneggiati o persone offese».