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Eredità Agnelli: la Cassazione si pronuncia in tema di sequestri di dispositivi informatici e presso studi di professionisti

Cassazione Penale, Sez. III, 3 ottobre 2024 (ud. 4 luglio 2024), n. 36775
Presidente Andreazza, Relatore Andronio

Segnaliamo, con riferimento al procedimento relativo all’eredità Agnelli, la sentenza con cui la Cassazione ha affermato interessanti principi di diritto in tema di sequestro di dispositivi informatici (su cui il Tribunale aveva enucleato un “decalogo” in punto di diritto contestato dalla Procura) e sequestro presso studi di professionisti (su cui si è posto il tema della eventuale opponibilità del segreto da parte del professionista indagato).

Quanto al primo tema, la Corte ha ricordato che “l’autorità giudiziaria, al fine di esaminare un’ampia massa di dati, può disporre un sequestro dai contenuti molto estesi, provvedendo tuttavia – nel rispetto del principio di proporzionalità ed adeguatezza – alla immediata restituzione delle cose sottoposte a vincolo non appena sia decorso il tempo ragionevolmente necessario per gli accertamenti”.

Per garantire la legittimità del mezzo di ricerca sono richiesti “strumenti compensativi di garanzia” per il soggetto che subisce la limitazione dei propri diritti, necessari al fine di evitare che il mezzo di ricerca si trasformi in uno “strumento di illegittima compressione di diritti, con conseguente ingiustificata “rincorsa” da parte del soggetto a cui le cose sono sequestrate al fine di ottenere la restituzione di ciò che sin dall’inizio non avrebbe dovuto essere sequestrato.

L’esigenza investigativa – si legge nella sentenza – “può depotenziare, quasi vanificandola, la possibilità di verificare nella immediatezza la legittimità del mezzo di ricerca; gli strumenti di garanzia si collocano già al momento della adozione del mezzo di ricerca della prova e attengono: alla portata del vincolo; alle ragioni – che devono essere puntualmente esplicitate – per cui si decide di aggredire, ad esempio, la sfera giuridica di soggetti terzi estranei al reato; al motivo per cui il vincolo venga modulato in modo onnicomprensivo; alla necessità di ancorare la durata del sequestro a criteri oggettivi di ragionevolezza temporale; all’esigenza insopprimibile di selezione delle cose davvero necessarie ai fini della prova; alla necessità di evitare che l’ablazione assuma una valenza meramente esplorativa di notizie di reato diverse ed ulteriori rispetto a quella per cui si procede”.

Nel caso di sequestri di strumenti informatici, dunque, “il PM non solo deve motivare sull’impossibilità di ricorrere a strumenti meno invasivi, ma deve modulare il sequestro in maniera tale da non arrecare un inutile sacrificio di diritti, il cui esercizio di fatto non pregiudicherebbe la finalità probatoria e cautelare perseguita”.

Sulla base di tali principi – prosegue la pronuncia – il “decalogo enucleato dal Tribunale contenente gli elementi che il Pubblico Ministero avrebbe dovuto inserire nel decreto di sequestro probatorio” – contestato dalla Procura perché non prescritto da nessuna norma né desumibile da alcun principio di diritto – “appare conforme ai dettami della giurisprudenza di legittimità, perché, senza recare significative innovazioni sostanziali, si riferisce a tutte le componenti ritenute rilevanti ai fini della motivazione del sequestro probatorio” .

Quanto al secondo tema, secondo la Corte “il Tribunale di Torino si è diligentemente uniformato ai criteri ermeneutici sanciti dalla giurisprudenza di legittimità in materia di segreto professionale, la quale ha reiteratamente chiarito la piena legittimità del sequestro eseguito presso lo studio del libero professionista, giacché il segreto professionale può essere opposto solo dal testimone, e non anche dall’inquisito, tenuto conto che l’unico segreto opponibile da quest’ultimo al magistrato penale è quello di Stato” .

D’altra parte – si legge nella decisione – “è la stessa normativa processuale sul punto a restituire numerosi argomenti a favore della inopponibilità del segreto professionale da parte del professionista indagato/imputato. L’evocato art. 200 cod. proc. pen., infatti, statuendo che «non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria» tra gli altri «gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale» – e, dunque, per la parte che qui interessa, anche i dottori commercialisti ex art. 5 del d.lgs. n. 139 del 2005 – collega espressamente la disciplina del segreto alla testimonianza, delimitandone con sufficiente precisione l’ambito soggettivo di operatività, da ritenersi peraltro tassativo, trattandosi di norme derogatorie rispetto all’ordinario regime giuridico della testimonianza” .

Redazione Giurisprudenza Penale

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