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Omicidio Mollicone: la sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma

Corte di Assise di Appello di Roma, Sez. I, 27 settembre 2024 (ud. 12 luglio 2024), n. 24
Presidente e Relatore dott. Vincenzo Gaetano Capozza

Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico e giuridico della vicenda (relativa all’omicidio di Serena Mollicone, cd. “delitto di Arce” avvenuto il 1º giugno 2001), le motivazioni con cui la Corte di Assise di Appello di Roma si è pronunciata sugli atti di impugnazione – presentati da Procura e parti civili – avverso la sentenza con cui la Corte di Assise di Cassino, nel luglio 2022, aveva assolto i cinque imputati.

Nel riepilogare alcuni dei passaggi degli atti di appello avverso la sentenza di assoluzione, la Corte osserva come «applicando la regola fondamentale, di derivazione anglosassone, insegnata ai cronisti per descrivere nei suoi elementi essenziali un accadimento, e, cioè, quella delle cinque W (who, what, when, where, why – chi, che cosa, quando, dove, perché) o, se si preferisce, la locuzione ciceroniana indicante i criteri per svolgere correttamente una composizione letteraria (quis, quid, ubi, quibus ausili, cur, quomodo, quando – chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, in che modo, quando), possiamo affermare che la ricostruzione presenta molte lacune».

È vero – si legge nella sentenza – «che, in ambito giudiziario, l’incertezza o l’imprecisione di alcuni dei parametri citati non sempre determina l’esclusione della sussistenza del fatto reato e della responsabilità di chi è chiamato a risponderne. Nel caso in esame, l’impossibilità di determinare il momento preciso della consumazione dell’omicidio non inficia affatto l’ipotesi accusatoria».

Però, «se passiamo dal “quando” al “dove”, non vi è certezza che la barbara uccisione della povera Serena (il “what” è certo: è stato un efferato omicidio) sia avvenuto nella caserma dei Carabinieri di Aree: non è certo che la ragazza sia entrata in quel luogo, non è certo che sia stata scagliata contro la porta, ancora più incerto è che la seconda parte dell’aggressione alla sua persona (quella, letale, dell’imbavagliamento e dell’asfissia) sia avvenuta nella stessa Stazione».

Questa Corte – affermano i giudici – «non ignora che, nel corso dei lunghi anni trascorsi dopo la morte di Serena, si sia progressivamente radicata in larga parte dell’opinione pubblica la convinzione della responsabilità degli odierni imputati. Ma il convincimento del giudice (che non è mai “libero” – come erroneamente a volte si dice – ancorato com’è a rigorosi criteri di valutazione delle prove, di cui deve dar conto con una congrua motivazione) non può e non deve fondarsi sui sondaggi o sugli umori popolari».

La Corte prosegue evidenziando che «qui, nelle aule di giustizia, non può albergare la polemica frase (scritta, peraltro, cinquant’anni fa, in un articolo di analisi storico-politica, non giudiziaria) di un noto intellettuale (Pasolini): “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi“. Questa Corte ritiene di non avere le prove della colpevolezza degli odierni imputati e sa che una sentenza di colpevolezza sarebbe costruita su fondamenta instabili».

Ovviamente – si legge nella sentenza – «non può escludersi che le prove, invece, ci siano, e che questo Collegio non abbia saputo valorizzarle, scorrettamente applicando i criteri dettati dall’art. 192 c.p.p. Questo lo dirà, eventualmente, la Suprema Corte, magari stabilendo che le incertezze probatorie siano superabili e che i dubbi rappresentati dalle due Corti di merito siano meramente soggettivi, virtuali, immaginari e collocati nel regno sconfinato delle possibilità».

Dopo aver ricordato che il Giudice deve prestare ossequio a un altro principio cardine del diritto processuale penale (l’art. 533 del codice di rito esordisce con la frase “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio“), la Corte ricorda che il Legislatore «ha codificato il principio di derivazione anglo-sassone racchiuso nell’acronimo B.A.R.D. (beyond any reasonable doubt): un principio che – al pari del curiosamente omonimo inespugnabile Forte valdostano – è inattaccabile da parte di chi è chiamato a giudicare».

Tali principi – concludono i giudici di appello – sono di più stringente applicazione per il giudice che si trova ad esaminare una sentenza assolutoria di primo grado, posto che – come affermato dalla giurisprudenza – «per la riforma di una sentenza assolutoria non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, che sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata».

In conclusione, «sebbene questo Collegio abbia “largheggiato” nell’applicare il disposto dell’art. 603, comma 3 bis, c.p.p., deve constatare che la rinnovata istruzione dibattimentale ha lasciato sostanzialmente immutato il quadro probatorio e, in tale situazione, non può che confermarsi l’incertezza e la contraddittorietà degli elementi per affermare la responsabilità degli imputati».

Nel riportare alcuni passaggi dell’appello del PM, la Corte ne evidenzia alcune peculiarità lessicali che «seminerebbero dubbi su quale sia la ricostruzione da porre a base del giudizio di responsabilità: l’utilizzo di avverbi alludenti a verosimiglianza e plausibilità o l’uso, nella stessa frase, di due negazioni al fine di esprimere un’affermazione appare sintomatica di una ricostruzione meramente logica e determina in chi legge la sensazione o, addirittura, la convinzione, che si tratti di fatti possibili, forse anche probabili, ma non certi».

Redazione Giurisprudenza Penale

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