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Inapplicabilità dell’art. 603 bis c.p. al lavoro intellettuale: una chiara presa di posizione della Corte di cassazione

in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 12 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sez. II, 28 novembre 2024 (ud. 18 settembre 2024), n. 43662
Presidente Pellegrino, Relatore Florit

Nel panorama giurisprudenziale riguardante la fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p., si affaccia – per la prima volta – un’interpretazione della norma che delinea precisi confini di applicabilità incentrati sul tipo di attività lavorativa interessata dall’ipotesi di sfruttamento e illecita intermediazione.

Nella sentenza 1671/2024, le cui motivazioni sono state depositate lo scorso 28 novembre, la II sezione penale della Corte di Cassazione ha infatti escluso la ricorrenza del reato, allorché le condotte sanzionate dalla disposizione incriminatrice incidano – come nel caso trattato in sede d’incidente cautelare – sul lavoro intellettuale (in specie si trattava d’insegnati assunti presso una società cooperativa).

L’approdo della Corte si fonda, in primo luogo, su un’esegesi teleologica dell’art. 603 bis c.p. che – valorizzando le finalità sottese all’introduzione della fattispecie – confina la risposta penale al solo lavoro manuale.

Il Giudice di legittimità pone l’accento sulla genesi della norma, ricondotta alla necessità di reprimere “il fenomeno del caporalato nel mercato del lavoro dei braccianti agricoli”, rilevando come anche il successivo ampliamento della fattispecie (volto a estendere la punibilità alle condotte d’impiego della manodopera e non solo quelle d’intermediazione) fosse inserito in una legge dedicata sempre al settore agricolo.

Da qui, poi, valorizzando il divieto di analogia e la collocazione della norma in un “[…] tessuto normativo costituito da reati come la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, il traffico di organi prelevati da persone vive (oltre che prostituzione  e pornografia minorile), vale a dire reati che colpiscono, su una scala elevatissima, la “personalità” individuale, fino al punto di annullarla”, la Corte ritiene che la disposizione incriminatrice non possa utilizzarsi per punire fattispecie originariamente non ipotizzate dal Legislatore.

La Corte conforta il proprio approdo ermeneutico sulla base del dato testuale, che precluderebbe “l’applicazione della norma a categorie di lavoro che, avvalendosi di prestazioni intellettuali, esulano in radice dalla categoria dei lavori manuali”. Si fa leva, in particolare, sulla nozione di “manodopera”, categoria cui la norma correla lo sfruttamento e l’illecita intermediazione, che rappresenta, secondo i giudici di legittimità, un termine semanticamente legato alla manualità e generalmente riferito alla prestazione di lavoro “privo di qualificazione (tanto che, ove le qualità manuali e realizzative aumentino, si parla di “manodopera specializzata”). Nel proprio lavoro quasi filologico, la sentenza osserva che il termine manodopera descriverebbe un’attività collettiva all’interno della quale “l’individuo e le sue capacità perdono significato a fronte della potenzialità produttiva che il gruppo di lavoratori può esprimere”.

Delineata così la nozione di manodopera, la Corte osserva come il lavoro intellettuale – tanto se esercitato nella forma subordinata quanto se svolto in regime libero professionale – avrebbe caratteristiche tutt’affatto diverse, dal momento che “l’intelletto e il suo uso costituiscono elemento identitario ed individualizzante che non può essere svilito, disperdendolo nella categoria generica della manodopera”.

La Corte, dunque, traccia dei confini molto netti e, correlando lo sfruttamento rilevante ex art. 603 bis c.p. alle sole forme di lavoro manuale, rispetto alle quali ritiene ipotizzabile una compressione della libertà individuale tale da incidere drasticamente sulla possibilità di autodeterminazione, esclude dall’ambito di operatività della fattispecie l’area del lavoro intellettuale. E’ presumibile che l’approdo della Corte, apprezzabile per la sua aderenza ai principi di tassatività e frammentarietà, troverà in futuro occasione di ulteriore elaborazione, magari in relazione a quelle ipotesi in cui alla componente intellettuale si accompagna anche una dimensione manuale del lavoro e per le quali, dunque, occorrerà misurare, in concreto, la possibilità o meno di configurare quella compressione della libertà sanzionata dalla norma incriminatrice.

Va anche aggiunto che i giudici di legittimità, mossi dal medesimo intento definitorio e alla ricerca di solidi paradigmi cui agganciare la norma, si soffermano comunque sugli elementi strutturali della fattispecie, rappresentati dallo stato di bisogno e dallo sfruttamento dei lavoratori.

Quanto al primo elemento, la Corte stigmatizza la genericità che caratterizza la motivazione dell’ordinanza, relegando a “mera condizione sociologica, inutilizzabile in questa sede per la sua vaghezza” l’identificazione dello stato di bisogno nel “generale contesto di crisi occupazionale”.

Anche in questo caso i Giudici di legittimità si muovono sul terreno della legalità sostanziale e, pur senza compiere un’opera tassativizzante, ricordano la necessità di riempire di contenuti concreti una nozione che, come sottolineato dalla dottrina, ha un elevato tasso d’indeterminatezza.

Quanto, invece, al secondo elemento, la censura attiene non tanto al profilo definitorio, quanto piuttosto all’iter motivazionale impiegato per ritenere integrata l’ipotesi dello sfruttamento. La Corte, infatti, ritiene che, alla luce di alcuni indici evidenziati dalla difesa (un orario giornaliero estremamente ridotto e l’interesse dei lavoratori a “totalizzare” un numero elevato di giornate per ottenere una collocazione migliore in graduatoria), andasse verificato se la sottoscrizione dei contratti, lungi dall’essere indotta dallo stato di bisogno, “non corrispondesse a ad una scelta di opportunità dei singoli docenti, attratti dalla prospettiva di acquisire punteggio a fronte di un impegno lavorativo minimale se non simulato”.

Da ultimo, trasferendosi dal piano sostanziale a quello eminentemente processuale, merita richiamo un altro passaggio della sentenza, che attiene all’inadeguatezza del corredo motivazionale dell’ordinanza impugnata. La Corte, che informa la propria decisione, anche per tale aspetto, a un rigore garantista, censura la “carenza radicale di motivazione, non sanabile dal Tribunale di Palermo”, evidenziando come il provvedimento genetico fosse costituito nelle prime 45 pagine dalla trasposizione con la tecnica del copia incolla della richiesta cautelare, seguita da meno di mezza pagina di “argomentazioni stereotipate e prive di riferimenti specifici vuoi ai singoli indagati ed al rispettivo ruolo, vuoi a singoli episodi o ad aspetti salienti della vicenda”. Così, una volta circoscritto, con il richiamo ai precedenti di legittimità, il perimetro del rinvio per relationem, la Corte ritiene il provvedimento genetico del GIP affetto da “apparenza motivazionale” proprio in quella parte che dovrebbe costituire la “quintessenza della valutazione giudiziale, cioè l’esame critico degli elementi fattuali, anche se eventualmente introdotti nell’ordinanza mediante il meccanismo dell’incorporazione”.

Come citare il contributo in una bibliografia:
F. Riboldi, Inapplicabilità dell’art. 603 bis c.p. al lavoro intellettuale: una chiara presa di posizione della Corte di cassazione, in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 12