L’ordinanza del Tribunale di Milano nel procedimento per diffamazione ai danni della Senatrice Liliana Segre
Tribunale di Milano, Ufficio GIP, Ordinanza, 28 aprile 2025
Giudice dott. Alberto Carboni
Segnaliamo ai lettori l’ordinanza emessa da GIP del Tribunale di Milano nel procedimento per diffamazione e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa ai danni della Senatrice Liliana Segre.
Quanto alla completezza delle indagini – si legge nell’ordinanza – «gli Internet Service Providers che gestiscono i social media hanno sede all’estero e non ritengono di essere assoggettati alla disciplina comunitaria in tema di discovery e data retention dei files di log. Ciò nonostante, in molti casi sono stati emessi decreti di acquisizione di dati di traffico telematico ed è stata sollecitata la collaborazione degli ISP».
Le risposte ottenute «possono essere così sintetizzate: Facebook e Instagram hanno comunicato di aver assunto in carico le richieste e hanno risposto solo su base discrezionale; Google ha comunicato che il diritto dell’utente di avere opinioni e diffondere idee libere da interferenze dell’autorità pubblica prevale sul legittimo interesse delle Forze dell’Ordine nelle indagini; Twitter ha risposto su base discrezionale ritenendo di poter comunicare i dati in possesso, sia di registrazione sia di connessione, solo per alcuni degli account richiesti; Telegram non ha fornito alcuna risposta».
Facebook e Twitter – prosegue il Tribunale – «hanno chiesto che venga formulata una richiesta in via rogatoriale: sebbene il tenore formale della risposta lasci intendere che la rogatoria sia una strada percorribile, è tuttavia noto che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti non dà seguito alle richieste di collaborazione per l’identificazione degli autori del reato di diffamazione».
Ne consegue che «le sole attività che potrebbero essere svolte con profitto sono gli approfondimenti basati sulle informazioni personali pubblicate sui vari profili social. Come risulta dalle indagini svolte in relazione alle prime querele, nella maggior parte dei casi gli utenti facebook registrano il profilo con il proprio nome reale e inseriscono numerose informazioni personali».
Quanto ai numerosi post che accostano in vario modo la senatrice Segre al nazismo, nella richiesta di archiviazione si sostiene che «è frequente nel dibattito politico l’utilizzo, per contrastare e stigmatizzare l’avversario politico, del termine “nazista”, ovviamente in un senso differente rispetto a quello proprio e storico».
Questa premessa – prosegue il Tribunale – «è condivisibile nella sua valenza astratta, ma il ragionamento proposto non può invece essere calato nella peculiare vicenda in esame. A ben vedere, infatti, accusare di nazismo una reduce dai campi di sterminio integra di per sé il reato di diffamazione sia nei casi in cui tale epiteto viene esternato in modo apodittico e non argomentato, sia quando esso si accompagna a riferimenti che richiamano con spregevole ironia la vita nei lager».
Espressioni simili «non possono essere considerate forme di manifestazione di un pensiero critico che, per quanto discutibile, sarebbe comunque legittimo nel dibattito democratico. Esse costituiscono invece uno sfregio alla verità oggettiva e rappresentano la più infamante delle offese per la reputazione di chi ha speso la propria vita per testimoniare gli orrori del regime e per coltivare la memoria dell’olocausto».
Il Tribunale prosegue evidenziando che «il tragico vissuto personale della senatrice Segre e l’incidenza che l’ideologia nazista ha avuto nella sua esistenza sono circostanze che erano ben conosciute agli autori dei post, i quali hanno accostato il termine nazista alla sua immagine proprio in ragione della speciale carica offensiva che ne sarebbe derivata. Del resto, basti notare che nella maggior parte dei casi l’accusa di nazismo è stata veicolata mediante il richiamo a immagini o figure – come quella del kapò – che rievocano in maniera inqualificabile il passato della senatrice Segre al fine di strumentalizzarlo con chiari intenti denigratori».
Da ultimo, quanto ai post che si risolvono in insulti gratuiti alla persona, il GIP evidenzia che «la circostanza che espressioni offensive siano state formulate sul web non caratterizza la vicenda in termini di minor disvalore».
Al contrario – si precisa – «il procedimento in esame conferma che l’estrema diffusività dello strumento informatico genera spirali di odio e violenza che sono alimentate proprio dalla inescusabile leggerezza con cui gli utenti si lasciano andare a commenti diffamatori. Il numero impressionante di messaggi che si pongono ben oltre il limite più estremo della continenza non può determinare una sorta di assuefazione a un fenomeno che, invece, deve essere valutato secondo i consueti canoni di giudizio che regolano il confine fra diritto di critica e diritto all’onore».
Va quindi ribadito – conclude il provvedimento – «che il web non rappresenta un terreno franco dove ogni insulto è consentito e dove la reputazione degli individui può essere calpestata impunemente. Va ribadito che lo schermo di un computer non è una barriera che assicura l’anonimato e che la tastiera non è un’arma contro la quale non ci sono difese. Va ribadito – come già dimostrano le indagini finora svolte – che lo Stato è presente e che è pronto ad andare fino in fondo per tutelare i diritti di chi invoca il suo intervento».