Estradizione e condizioni ostative: pericolo per l’estradando di subire violazioni dei diritti umani fondamentali
Cassazione Penale, Sez. VI, 18 novembre 2013 (ud. 15 ottobre 2013), n. 46212
Presidente Milo, Relatore Conti, P.G. Viola, Ricorrente Van Coolwijk
La massima
Ai fini dell’estradizione per l’estero, la “scelta di fatto” dello Stato richiedente – da cui deriva il pericolo per l’estradando di patire la violazione dei diritti fondamentali della persona e che impone al giudice italiano di pronunciarsi negativamente sull’istanza – può consistere anche nel contegno delle Autorità di non approntare misure idonee ad assicurare ai detenuti le condizioni necessarie a salvaguardare le minime esigenze di rispetto della dignità umana pur conoscendo ufficialmente lo stato di degrado in cui versano le strutture carcerarie.
Il commento
Con la sentenza che si annota, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino olandese, il quale si opponeva all’estradizione, concessa invece dalla Corte d’appello di Roma, verso la Repubblica del Brasile per l’esecuzione di una sentenza di condanna alla pena di anni diciassette, mesi sei, giorno uno di reclusione, per il reato di traffico di sostanze stupefacenti. Attraverso tale pronuncia, dunque, gli ermellini sono tornati ad esprimersi sulle condizioni ostative all’estradizione, specificando ulteriormente la portata delle stesse.
L’istituto dell’estradizione costituisce uno strumento fondamentale nel contesto della repressione dei reati, in particolare, di quelli che rilevano sul piano internazionale o transazionale. In effetti, l’allontanamento forzato di individui dal territorio statale è una prassi che ricorre pressoché quotidianamente in ogni stato. Nonostante, infatti, gli ordinamenti penali della maggior parte degli stati odierni dispongano di meccanismi procedurali che assicurino la possibilità di celebrare procedimenti in contumacia, la presenza fisica di un soggetto accusato o condannato nel territorio dello Stato resta una condizione necessaria per garantire un efficace esercizio dell’azione penale e l’effettiva applicazione delle pene eventualmente inflitte.
L’estradizione rappresenta, invero, quel tradizionale meccanismo attraverso cui un individuo che abbia trovato rifugio nel territorio di uno Stato estero viene consegnato alle autorità di un altro Stato che ne faccia richiesta, affinché queste possano procedere nei suoi confronti (estradizione processuale), o eseguire una sentenza di condanna a pena detentiva (estradizione esecutiva). Un’ulteriore classificazione all’interno dell’istituto stesso è tra estradizione passiva, o per l’estero, ed estradizione attiva, o dall’estero, a seconda che lo Stato venga richiesto della consegna, ovvero la domandi.
Relativamente alla normativa applicabile all’istituto de quo, le fonti primarie sono quelle internazionali alle quali si affiancano le disposizioni interne, costituite sia da norme costituzionali (art. 10, comma 4 e art. 26) che da quelle del codice penale (art. 13) e di procedura penale (artt. 697-722).
La procedura di estradizione è normalmente effettuata nell’ambito di un trattato bilaterale tra due paesi o di accordi multilaterali di estradizione, in virtù dei quali gli Stati parte si impegnano a consegnare un individuo che si trovi sul proprio territorio qualora le autorità dell’altro Stato parte ne facciano richiesta, in relazione ad un reato qualificato come “estradabile” dal trattato stesso (per un’analisi completa ed esaustiva sull’istituto e sulla procedura di estradizione passiva in particolare, che qui interessa, si veda RANALDI, Il procedimento di estradizione passiva, Utet Giuridica, Milano, 2012).
Le norme internazionali, ed in specie quelle a tutela dei diritti umani, dunque, risultano rilevanti nell’ambito dell’allontanamento di un individuo dal territorio dello Stato sotto due diversi aspetti.
La prima categoria di situazioni in cui le norme internazionali a tutela dei diritti umani possono rappresentare un ostacolo alla libertà degli Stati di procedere all’estradizione riguarda le ipotesi in cui la decisione di allontanare il reo comporti violazioni dei diritti dell’uomo imputabili direttamente allo Stato che procede alla consegna. Tipico esempio è il caso in cui le procedure con cui viene reso il provvedimento di decisione di allontanamento di un individuo, sono manifestamente non rispettose dei criteri minimi in materia di esercizio di autorità amministrativa o giurisdizionale.
La seconda categoria di situazioni in cui il diritto internazionale dei diritti umani riveste un ruolo considerevole nel caso in cui uno Stato voglia promuovere una qualsiasi azione diretta alla consegna ad un altro Stato di un individuo posto sotto la sua giurisdizione, è quella in cui il soggetto trasferito dallo Stato estradante venga esposto al rischio di essere vittima di violazioni dei propri diritti fondamentali nello Stato di destinazione. Invero, uno Stato può incorrere in una violazione dei propri obblighi internazionali in materia di tutela dei diritti umani per il solo fatto stesso di consentire l’espulsione, l’estradizione o la consegna alle autorità di un altro Stato, di un individuo soggetto alla sua giurisdizione qualora sussistano, al tempo dell’estradizione dell’interessato dal territorio, concrete e fondate ragioni per presumere che egli sia esposto ad un “pericolo reale” e “personale” di subire violazioni dei propri diritti fondamentali nello Stato di destinazione. Tale principio è stato sancito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, per la prima volta, nel 1989 nel noto caso Soering c. Regno Unito (BORRELLI, Estradizione, espulsione e tutela dei diritti fondamentali, in La tutela internazionale dei diritti umani: norme, garanzie, prassi, a cura di L. Pineschi, Giuffré, Milano, 2006, 724 ss.).
Esistono, pertanto, alcuni diritti considerati fondamentali dalla comunità internazionale, che sono suscettibili di limitare la concessione dell’estradizione da uno Stato all’altro. In primis, il diritto a non essere sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti ed il diritto a non subire un flagrante diniego di equo processo, entrambi indicati nella sentenza relativa all’affare Soering, citato poc’anzi. Il novero dei diritti protetti è stato poi ampliato tenendo presente quali sono i “valori fondamentali delle società democratiche”: sono stati, quindi, inclusi nella categoria anche il principio di irretroattività della legge penale ed il diritto a non essere ridotto in schiavitù o servitù (in merito, si veda STARACE, Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo ed estradizione, in: Diritti dell’uomo, estradizione ed espulsione: atti del Convegno di studio organizzato dall’Università di Ferrara per salutare Giovanni Battaglini (29-30 ottobre 1999) a cura di F. Salerno, CEDAM, Padova, 2003, 97 ss.).
Pertanto, è ormai universalmente accettato che l’esistenza di un pericolo reale alla compromissione di uno di tali diritti costituisca un limite alla libertà dello Stato di allontanare l’individuo dal territorio poiché, concedendo l’estradizione, concorrerebbe causalmente rispetto a prevedibili lesioni del diritto dell’estradato a non essere sottoposto a torture o trattamenti inumani o degradanti.
Ciò premesso, la sentenza in commento ribadisce ed amplia tale concetto, accogliendo il ricorso di un cittadino olandese detenuto in Italia per reati analoghi a quelli per i quali si procedeva (traffico di sostanze stupefacenti), che si opponeva all’estradizione, concessa invece dalla Corte di appello sul presupposto che le violazioni dei diritti umani nelle carceri del Paese carioca fossero sporadiche e che, in ogni caso, anche l’Italia fosse stata sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la condizione inumana in cui versano i detenuti nei penitenziari italiani. Per la Corte d’appello, quindi, il trattato di estradizione stipulato tra Italia e Brasile era pienamente e validamente applicabile.
Avverso la sentenza della corte territoriale, il ricorrente deduceva, invece, la violazione dell’art. 698 c.p.p., comma 1, art. 705 c.p.p., comma 2 lett. c), art. 5, lett. b) del Trattato di estradizione Italia – Brasile, art. 3 della CEDU, nonché il vizio di motivazione in punto di mancata considerazione, come dato ostativo all’estradizione verso il Brasile, della cronica, costante e generalizzata violazione dei diritti umani sistematicamente perpetrata nelle carceri del Paese sudamericano.
Sembra corretto, a questo punto, tenere conto del dato normativo e delle disposizioni che vengono in rilievo. Il Trattato bilaterale di estradizione stipulato dall’Italia e dal Brasile il 17 ottobre 1989 ed entrato in vigore il 1° agosto 1993 (ratificato dall’Italia con legge del 23 aprile 1991, n. 144), prevede all’art. 5, lett. b), che l’estradizione non può essere concessa se vi è fondato motivo di ritenere che la persona richiesta verrà sottoposta a pene o trattamenti che comunque configurano violazione dei diritti fondamentali.
Anche a livello nazionale, una simile disposizione è contenuta nel codice di rito all’art. 705, 2° comma, lett. c), il quale stabilisce che l’estradizione deve essere negata se vi è motivo di ritenere che la persona verrà sottoposta agli atti, alle pene o ai trattamenti indicati nell’articolo 698 c.p.p., 1° comma, ovvero pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.
Ebbene, sulla base delle citate norme, la Suprema Corte si oppone alla richiesta di estradizione, non condividendo la tesi sostenuta dalla Corte d’Appello. In effetti, con la sentenza in esame, viene ripresa un’interpretazione costante delle norme su citate e si riafferma il principio, ribadito anche a livello europeo dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (si vedano le sentenze dei casi Salah Sheekh c. Paesi Bassi sent. 11/01/2007 e D. c. Regno Unito sent. 02/05/1997), secondo cui il divieto di pronuncia favorevole che l’art. 705 comma 2 stabilisce, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui ciò sia riferibile ad una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, considerato nella sua veste istituzionale, e non da mere iniziative occasionali da parte di apparati pubblici agenti a titolo personale ed estemporaneo (ex multis Cass. Pen. sez. VI, 24 maggio 2006, n. 21985).
La Corte, però, va oltre le sue precedenti pronunce. Considerato, infatti, che, nella maggior parte dei casi, non esistono, per ovvie ragioni, delle disposizioni a livello normativo che consentano o impongano in specifici Paesi dei trattamenti che violino i diritti fondamentali della persona umana, va da sé che è proprio ad una situazione di fatto, non occasionale ma anzi ripetuta, consolidata, accettata e tollerata dalle istituzioni dello Stato richiedente, cui è necessario parametrarsi per accertare se ricorra o meno una condizione ostativa all’estradizione.
Inoltre, ai fini della verifica della sussistenza di tale impedimento di fatto, la Corte si era già espressa nel senso che la decisione in ordine all’esistenza di violazioni di diritti umani nel Paese richiedente può essere fondata anche sulla base di documenti e rapporti elaborati da organizzazioni non governative (quali, ad esempio, Amnesty International e Human Rights Watch) la cui affidabilità sia generalmente riconosciuta sul piano internazionale (si veda Cass. pen., sez. VI, 3 settembre 2010, n. 32685).
A ben vedere, nel caso di specie, proprio dai rapporti e dalle relazioni informative di diverse organizzazioni non governative era stata attestata la drammatica situazione dei penitenziari brasiliani, in particolare di quelli dello Stato di Espiritu Santo, che qui interessa nello specifico, in cui i detenuti sono costretti a scontare la loro detenzione in condizioni inumane, in strutture fatiscenti e precarie, con celle superaffollate e malsane. Al problema del sovraffollamento risultava poi strettamente connesso quello delle scarse condizioni igieniche, tali da favorire il contagio di malattie infettive facilmente trasmissibili. Erano emerse, infine, pratiche di torture e violenze ad opera degli stessi agenti carcerari corrotti o di bande organizzate interne, tollerate dalle autorità dagli agenti di custodia.
Tale situazione di fatto, spesso oggetto di appelli e richieste di indagini da parte non solo delle ONG poc’anzi citate ma anche della stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, è, per di più, dichiaratamente nota e ammessa dalle autorità politiche della Repubblica del Brasile e dallo stesso Ministro della Giustizia che scelgono, di fatto, di non approntare misure idonee ad assicurare ai detenuti le condizioni necessarie a salvaguardare le minime esigenze di rispetto della dignità umana, pur conoscendo ufficialmente lo stato di degrado in cui versano le strutture carcerarie.
Tale scelta di fatto, per i giudici del Palazzaccio, rientra nelle ipotesi di cui all’art. 705c.p.p., comma 2, lett. c) e si pone, dunque, come condizione ostativa all’estradizione.
A nulla vale, inoltre, il paragone con la situazione carceraria del nostro Paese, che, com’è noto, è stato più volte sanzionato dalla Corte EDU per il problema del sovraffollamento. Le condizioni delle carceri italiane, infatti, non sono comparabili, ad avviso della Corte di piazza Cavour, a quelle brasiliane in cui viene lesa la stessa dignità umana e, ad ogni modo, la realtà carcerarie nostrana, seppur deprecabile, non può influire sulla valutazione dell’autorità giudiziaria circa l’applicazione delle norme internazionali sul rispetto dei diritti umani.
Parimenti inutile, agli occhi degli ermellini, è la circostanza per cui il soggetto estradando viveva abitualmente in Brasile, in quanto la condizione di vita da uomo libero sarebbe cosa ben diversa dal trattamento che egli potrebbe subire da detenuto.
Pertanto, alla luce delle considerazioni svolte, meglio pare potersi cogliere la ratio della decisione della Corte di legittimità di annullare con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello, la sentenza impugnata.
La pronuncia che si è analizzata aiuta a comprendere come, nell’ambito dei rapporti tra autorità straniere, il diritto internazionale, ed in particolare il sistema internazionale a tutela dei diritti umani, imponga agli Stati, tenuti a determinarsi circa l’allontanamento di un individuo dal proprio territorio, di trovare un giusto compromesso fra l’esigenza di un’efficiente ed effettiva collaborazione nella repressione del crimine e le necessità di sicurezza nazionale e di ordine pubblico da un lato, ed il rispetto e la protezione dei diritti fondamentali dell’individuo, dall’altro. Occorre bilanciare in modo oggettivo gli interessi in gioco, negando la consegna di un soggetto qualora vi sia un fondato motivo di ritenere che, a seguito di estradizione, i suoi diritti fondamentali possano essere lesi in modo grave ed irreparabile. La protezione di questi ultimi, infatti, non può soccombere di fronte a necessità di cooperazione internazionale ma deve, anzi, essere considerata come un’esigenza prevalente e da garantire sempre.
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