Alla Consulta la questione di costituzionalità della recidiva obbligatoria – Cass. Pen. 37443/2014
Cassazione Penale, Sez. V, Ord., 10 settembre 2014 (ud. 3 luglio 2014), n. 37443
Presidente Lombardi, Relatore Caputo, P.G. Stabile
La massima
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, quinto comma, del codice penale in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
Il commento
1. Il caso di specie e la vicenda processuale.
Tizio, soggetto con precedenti penali per rissa (art. 588 c.p.), veniva condannato in primo grado alla pena detentiva per i reati ex artt. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù) e 600 bis co. 1 (prostituzione minorile) cod. pen., con riconoscimento delle attenuanti generiche ed esclusione della contestata recidiva, in quanto ritenute insussistenti la maggiore capacità a delinquere e l’accresciuta pericolosità sociale dell’imputato.
Su ricorso del P.G., teso a far valere l’obbligatoria applicazione della recidiva ex art. 99 quinto comma c.p., in quanto i reati anzidetti rientrano nell’elenco ex art. 407 co. 2, n. 7 bis, c.p.p., il giudice di appello riformulava la pena aggravandola.
Avverso la sentenza, ricorreva per cassazione il difensore dell’imputato argomentando nel senso che l’applicazione dell’aggravante della recidiva debba essere facoltativa. Altresì, la difesa chiedeva alla Corte di Legittimità di rimettere gli atti alla Consulta per un’asserita incostituzionalità dell’art. 99 co. 5 c.p. (casi di “recidiva obbligatoria”), norma ritenuta in contrasto con gli artt. 3, 25, 27, 111 Cost.
2. Rilevanza della questione di legittimità costituzionale e ricognizione dei principi in tema di recidiva obbligatoria.
La questione di costituzionalità invocata dalla difesa è da definirsi rilevante in quanto nel caso sottoposto all’attenzione del giudice a quo sussistono tutti i requisiti per l’astratta configurabilità dell’aggravante della recidiva obbligatoria, con conseguente sua incidenza sull’aspetto sanzionatorio.
Ciò posto, il Collegio passa ad analizzare alcune questioni relative alla recidiva ex art. 99 co. 5 c.p.; le argomentazioni verranno segnalate di seguito, schematicamente.
In primo luogo, la Corte di Legittimità rammenta come l’ipotesi ex art. 99 co. 5 cit. sia da definire ipotesi di recidiva obbligatoria, stante la chiara ed univoca formulazione letterale “…l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio…” (cfr. Corte Cost., sentenza n. 192 del 2007).
In secondo luogo, viene definita la recidiva obbligatoria in termini non di tipologia autonoma, bensì di “qualificazione” delle ipotesi di cui ai commi precedenti. Ciò si evince:
a) dalla collocazione del comma (idoneo a ricomprendere nel proprio alveo operativo i casi che lo precedono, agganciandosi ad ognuno di essi);
b) dal suo tenore letterale (“Se si tratta di uno dei delitti indicati all’art. …”);
c) dal testo dell’art. 62 bis co. 2 c.p., laddove fa riferimento ai “casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale…”. A riguardo, la dottrina ha rilevato come tale inciso dimostri la non riferibilità esclusiva della recidiva obbligatoria alla ipotesi di recidiva reiterata di cui al comma 4, art. 99 c.p., in quanto – se così non fosse – sarebbe stato sufficiente il richiamo del solo comma quinto, evitando il riferimento combinato al quarto comma “in relazione” ai delitti rilevanti per la recidiva obbligatoria.
Dai predetti assunti si evince, in sintesi, che non esiste una tipologia a sé stante di recidiva, nota come recidiva obbligatoria, bensì si deduce che l’obbligatorietà può divenire – nel caso in cui rilevino determinati delitti – carattere acquisito dalle altre ipotesi di recidiva (cfr. Sezioni Unite, 24 maggio 2011, n. 20798).
Il terzo pilastro dell’analisi che la Corte di Legittimità svolge inerisce al problema se il delitto ex art. 407 c.p.p., dal quale discende tale obbligatorietà, debba considerarsi quello in precedenza commesso dall’imputato e coperto dalla condanna, o piuttosto debba trattarsi del “nuovo delitto” posto al vaglio del giudice (o, altresì, possa individuarsi nell’uno e/o nell’altro indistintamente).
Seguendo l’insegnamento di Sez. Un. 20798/2011, i Giudici della Nomofilachia accreditano l’orientamento per cui il reato ricompreso nell’elenco tassativo ex art. 407 c.p.p. deve consistere nel “nuovo reato”. Ciò per alcune ragioni:
a) i commi precedenti agganciano l’istituto della recidiva al caso in cui venga commesso un nuovo o un altro reato;
b) il comma quinto rinvia ai “casi indicati al secondo comma”, comma nel quale si fa riferimento al “nuovo delitto”.
c) solo nell’ipotesi di recidiva c.d. specifica il Legislatore ha attribuito importanza a che i reati siano della “stessa indole”.
3. Non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità con riguardo all’art. 3 Cost., sub specie di principio di ragionevolezza.
3.1. La ratio della recidiva.
Per giungere a ritenere non manifestamente infondata la questione di costituzionalità avente ad oggetto l’art. 99 co. 5 c.p., la Corte di Legittimità espone l’intimo fondamento dell’aggravante della recidiva, generalmente intesa.
L’istituto va applicato quando il giudice ravveda, nel nuovo fatto illecito compiuto dal soggetto agente, “in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti”, i sintomi di una sua maggiore colpevolezza e pericolosità, non potendosi definire il carattere di “recidivo” come un mero status personale disancorato dal fatto. Riprendendo le parole della Quinta Sezione, il reo, mediante la commissione del nuovo fatto illecito, deve dimostrare una “maggiore attitudine a delinquere […] idonea ad incidere sulla risposta punitiva – sia in termini retributivi che in termini di prevenzione speciale – quale aspetto della colpevolezza e della capacità di realizzazione di nuovi reati, soltanto nell’ambito di una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso, che deve essere concretamente significativo – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti, e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo” (v. Sez. Un. sentenza n. 20798/2011). Il giudice deve perciò valutare se la reiterazione dell’illecito sia espressivo di riprovevolezza e pericolosità, alla luce di vari elementi quali la natura dei reati, il tipo di devianza di cui sono il segno, la qualità dei comportamenti, il margine di offensività delle condotte, la distanza temporale e il livello di omogeneità esistente fra loro, l’eventuale occasionalità della ricaduta e “ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali” (cfr. Sezioni Unite, sentenza n. 35738/2010), costituendo dato insufficiente all’indagine la mera sussistenza del precedente penale.
3.2. L’art. 99 comma 5 cod. pen. introduce una presunzione assoluta di maggiore colpevolezza e pericolosità del reo.
Il comma quinto dell’art. 99 c.p. non consente al giudice di effettuare il vaglio sulla significatività del nuovo fatto illecito, cristallizzando una presunzione assoluta di maggiore biasimo e di maggiore attitudine alla perpetrazione del crimine.
Va allora posta la questione se i delitti condensati nell’art. 407 co. 2, lett. a), c.p.p., siano di per sé in grado di rivelare i tratti di una più spiccata colpevolezza di chi li compie, tanto da rendere giustizia all’automatico aggravio di pena.
In altri termini, il potenziale conflitto tra l’art. 99 co. 5 c.p. e l’art. 3 Cost. dipende innanzitutto dal rispetto del principio di ragionevolezza: è ragionevole ritenere che un soggetto, con precedenti penali, riveli automaticamente una accentuata pericolosità e attitudine ad opporsi all’ordinamento, nel momento in cui compie uno dei reati di cui al predetto art. 407 c.p.p.?
La presunzione assoluta, per non sprofondare nella illogicità, deve riferirsi a dati generalizzati ed essere strettamente ancorata al principio dell’id quod plerumque accidit, palesando al contrario la propria arbitrarietà (e dunque irragionevolezza) laddove sia assolutamente agevole riscontrare ipotesi concrete cui la regola “blindata” dal connotato frequentistico non è in realtà capace di aderire. Nel nostro caso, si tratta di valutare se possano verificarsi episodi nei quali il soggetto in precedenza condannato commetta un reato ex art. 407 co. 2, lettera a), c.p.p., senza perciò rivelare un accentuato profilo di pericolosa inclinazione all’illecito.
La congruenza dell’imprescindibile collegamento tra una “lista” di crimini ed una maggior colpevolezza del reo è ardua a rinvenirsi, per due motivi:
1) in primo luogo, perché – come in precedenza esposto – la verifica sulla meritevolezza dell’aggravio di pena si svolge prendendo come riferimento elementi concreti di intensità e natura variabili di caso in caso, che non sono suscettibili di essere assorbiti una volta per tutte dal nomen iuris del reato.
2) in secondo luogo, anche a voler ammettere che l’elenco tassativo di cui all’art. 407 c.p.p. contenga reati “di particolare gravità e allarme sociale” (cfr. Corte Cost. 192/2007), tale carattere non è in grado di rivelare la maggior colpevolezza e pericolosità del reo, essendo piuttosto idoneo a descrivere l’impatto che il fatto illecito ha sulla collettività e sull’opinione pubblica.
4. La non manifesta infondatezza rispetto all’art. 3 Cost., sub specie di divieto di identico trattamento di situazioni diverse, e rispetto all’art. 27 Cost.
Gli attriti tra l’art. 99 co. 5 cit. e la Carta Costituzionale non si esauriscono nella irragionevolezza della presunzione assoluta, toccando anche ulteriori profili problematici.
La Corte di Legittimità rinviene infatti un possibile conflitto tra la norma in parola e l’art. 3 Cost., poiché la prima – applicandosi in via completamente avulsa dal vaglio di elementi concretamente significativi inerenti al fatto storico – rischia di applicarsi a soggetti che meritano trattamenti sanzionatori differenti, o perché uno di essi, qualora il giudice fosse abilitato alla normale verifica sulla maggiore riprovevolezza, finirebbe per non meritare affatto il riconoscimento dell’aggravante; o perché divergerebbero comunque in punto di fatto le situazioni che li vedono protagonisti e i risvolti in termini di colpevolezza e pericolosità di ciascuno degli agenti.
Se ciò è vero, l’art. 99 co. 5 c.p. si pone altresì in contrasto con l’art. 27 co. 3 Cost., poiché la percezione di un ingiustificato aggravio di pena, non supportato da elementi fondanti di adeguato spessore, frustrerebbe le esigenze rieducative del reo, poiché questi sarebbe portato a considerare la pretesa punitiva dello Stato (almeno parzialmente) infondata, rifiutando il trattamento risocializzante.