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La Consulta sul caso De Magistris: infondata la questione di legittimità costituzionale della Legge Severino.

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Corte Costituzionale, Sentenza n. 236 del 2015
Presidente Criscuolo, Relatore De Pretis

Con la sentenza n. 236/2015, depositata il 19 novembre ultimo scorso, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità dell’art. 11 comma 1 lett. a) del D. Lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, meglio noto come Legge Severino e relativo ad incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1 comma 63 Legge 6 novembre 2012, n. 190.

1. La vicenda
Il caso è noto alla cronaca e riguarda il giudizio promosso dal Sindaco del Comune di Napoli avanti il TAR Campania, al fine di ottenere l’annullamento del decreto del Prefetto di Napoli dell’ottobre 2014, con il quale era stata accertata la sospensione dalla carica di Primo Cittadino per effetto della condanna in primo grado pronunciata dal Tribunale di Roma per il reato di abuso d’ufficio (323 c.p.). Siffatto accertamento si fondava sull’ipotesi sospensiva di cui all’art. 11 comma 1 lett. a) del D. Lgs. 235/2012.
Ai fini di quanto segue, pare opportuno chiarire che la condanna del Tribunale di Roma era intervenuta successivamente all’entrata in vigore del citato Decreto e aveva ad oggetto fatti commessi anteriormente a tale data. Ugualmente anteriori erano la candidatura e l’elezione a Sindaco.

2. L’ordinanza di rimessione
Con ordinanza del 30 ottobre 2014 il Tribunale Amministrativo adito sollevava questione di legittimità costituzionale del succitato art. 11 comma 1 lett. a), il quale dispone che sono sospesi di diritto dalle cariche di cui all’art. 10 comma 1 del medesimo decreto (fra le altre: presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale) coloro che abbiano riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c), fra cui figura anche l’ipotesi di abuso d’ufficio.
I dubbi di legittimità dell’autorità rimettente poggiavano su due argomenti congiunti: da un lato si sottolinea la natura sanzionatoria dell’istituto della sospensione e dall’altro lato l’efficacia retroattiva di tale istituto.
Più in particolare, il Tribunale Amministrativo aveva ritenuto che la norma in analisi disciplinasse materia afferente al diritto di elettorato passivo ex art. 51 Cost., ed altresì che “ove vi sia riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta, assumono rango costituzionale anche i principi generali che disciplinano la fonte di produzione normativa primaria”, quale il principio di non retroattività ex art. 11 delle preleggi. Ciò varrebbe tanto più nei casi di norme aventi natura sanzionatoria, considerata “l’inderogabilità assoluta del principio di irretroattività nell’ambito di istituti e regimi in buona parte assimilabili alle sanzioni penali”.
Alla luce dei descritti argomenti, il Tribunale rilevava un “eccessivo sbilanciamento” della norma a favore della “salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica”, rispetto ad altri interessi costituzionali, in particolare al citato diritto di elettorato passivo ex art. 51 “da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma”.
In conclusione, l’art. 11 comma 1 lett. a) del D. Lgs. 235/2012, nella parte in cui si applica retroattivamente anche nei casi di condanne non definitive, contrasterebbe con i richiamati articoli 2, 4.2, 51.1, 97.2 della Costituzione.

3. La pronuncia della Corte
Come anticipato, la questione sottoposta al vaglio di costituzionalità è stata ritenuta nel merito infondata. Previo giudizio (positivo) di ammissibilità, tre sono stati i passaggi logici che hanno portato ad esito siffatto.
In primo luogo, la Corte ha ritenuto di stralciare le censure di incompatibilità con gli articoli 4 e 97 Cost.. Quanto alla prima, i giudici hanno argomentato che l’adempimento del dovere di cui all’art. 4.2. “non è pregiudicato da una norma che prevede la sospensione da una carica politica a seguito di una condanna penale”, poiché il cittadino può assolvere a tale dovere in modi e forme alternativi all’assunzione di cariche elettive, con la conseguenza che “la previsione dell’art. 4, secondo comma, non può logicamente costituire un ostacolo alla fissazione da parte della legge di requisiti per il mantenimento di uffici pubblici e cariche pubbliche, come previsto dall’art. 51 primo comma Cost.”. Quanto invece alla presunta violazione dell’art. 97, la Corte ha affermato che, all’opposto di quanto sostenuto dal rimettente, il buon andamento e l’imparzialità della P.A. possono essere invocati proprio “a sostegno della legittimità di una norma che prevede la sospensione dalla carica di pubblico amministratore di chi abbia subito una condanna per un reato contro la pubblica amministrazione”.
Come secondo argomento, la Consulta ha negato la natura sanzionatoria della norma censurata. Nel far ciò, i giudici hanno ricordato la giurisprudenza della stessa Corte intervenuta con riferimento alle leggi precedenti al D. Lgs. 235/2012, chiarendo che “le misure della incandidabilità, della decadenza e della sospensione (…) non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento”. In altre parole, “il legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva”.
In terza battuta, la Corte ha rilevato la fallacia dell’argomento che voleva l’applicazione retroattiva della norma alla stregua di una violazione dei parametri costituzionali. Tale assunto si basava su una tesi di “costituzionalizzazione” dell’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile nei casi di riserva di legge per la disciplina di diritti fondamentali, che i giudici hanno ritenuto del tutto infondata. Infatti, hanno ragionato, al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 25 comma 2 Cost. (non retroattività della legge penale), di cui peraltro il rimettente non censurava la violazione, le leggi possono ben retroagire, seppur nel rispetto di limiti fissati dalla stessa Consulta (ex plurimis, sentenza 156/ 2007) ed in questo caso non superati.
Rilevato quanto sopra, la Corte ha ritenuto che il legislatore, nell’aver valutato e disposto che una condanna non definitiva per abuso d’ufficio faccia sorgere l’esigenza di sospendere temporaneamente l’eletto dalla carica, abbia legittimamente operato un bilanciamento tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione, dall’altro.
Per tutte la ragioni esposte, la questione è stata dichiarata infondata.