La (il)liceità della violenza sportiva tra accettazione del rischio, consenso dell’avente diritto ed esercizio di una facoltà legittima in una recente pronuncia della Corte di cassazione.
Cassazione Penale, Sez. IV, 8 marzo 2016 (ud. 26 novembre 2015), n. 9559
Presidente Brusco, Relatore Grasso, P.G. Gialanella (concl. diff.)
1. La pronuncia che qui si annota, conferma e certifica un indirizzo giurisprudenziale ormai sufficientemente consolidato secondo cui i fenomeni di “violenza” commessi nel corso dell’esercizio di un’attività sportiva, possano essere considerati penalmente irrilevanti qualora rimangano nei limiti dell’«accettazione del rischio consentito».
Dietro la nebulosa formula utilizzata dai Giudici di legittimità, si cela il tradizionale – e mai del tutto sopito – dibattito relativo ai confini da tracciare per la esatta valutazione della (ir)responsabilità penale dell’atleta che faccia uso della violenza nel corso di una manifestazione sportiva, tutte le volte in cui la condotta da questi tenuta sia tale da integrare gli elementi costitutivi tipici di una fattispecie astrattamente prevista dal legislatore penale.
Più nello specifico, si tratta di stabilire se sia possibile riconoscere cittadinanza all’interno dell’ordinamento penale alle cc.dd. cause di giustificazione non codificate o, secondo una terminologia ad essa equivalente, alle scriminanti “atipiche”. Non ritenendosi possibile, infatti, inquadrare questo come gli altri fenomeni di c.d. “colpa speciale o professionale” [[1]] entro i “rigidi” schemi delle specifiche disposizioni di legge che disciplinano il fenomeno delle cause di esclusione della punibilità, la riflessione penalistica si è sempre sforzata di elaborare una serie di criteri volti a legittimare l’esistenza (e, dunque, delineare il relativo contenuto), di un più ampio complesso di “ambiti scriminanti”.
2. Con specifico riferimento all’attività sportiva, una volta messe da parte le ricostruzioni secondo cui non potrebbe, in astratto, negarsi la possibilità di comminare la sanzione criminale rispetto ad offese realizzate nel corso di attività agonistiche [[2]], la letteratura giuridica si è da sempre sforzata di individuare il fondamento della liceità dei fatti commessi nell’esercizio di una manifestazione sportiva e, segnatamente, i limiti della non punibilità.
2.1 Un primo orientamento interpretativo, ha ritenuto di poter inquadrare le ipotesi in esame entro gli schemi della scriminante del consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p. [[3]].
Di fronte a sport che si caratterizzano per la necessità di porre in essere delle condotte intrinsecamente violente (emblematici, in tal senso, sport quali la boxe, il karate o il judo), si è ritenuto che l’adesione del partecipante alla competizione agonistica de qua costituisca una manifestazione del previo consenso a subire tutte le conseguenze che dall’esercizio di tale attività possano derivare per la propria incolumità fisica [[4]]. A seconda delle ricostruzioni proposte, poi, il consenso potrebbe validamente operare nel caso in cui l’offesa all’altrui bene sia avvenuta nel rispetto delle “regole del gioco”, ovvero quando la condotta del soggetto agente rimanga entro i confini della “violenza di base” caratterizzante quel determinato sport pur in presenza di una oggettiva violazione del regolamento [[5]].
2.2 Altro orientamento interpretativo ritiene applicabile la scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p. [[6]]. Una volta individuata la ratio della scriminante in esame nel principio di non contraddizione, sarebbe quantomeno “bizzarro” – si sostiene – che l’ordinamento dopo aver autorizzato (se non addirittura incentivato) l’esercizio di un’attività sportiva decida, poi, di punire gli atleti che nel rispetto delle regole del gioco cagionino degli eventi lesivi nei confronti dell’altrui integrità fisica [[7]]. L’area di liceità che si verrebbe, per tal via, a creare, avrebbe riguardo non solo alle condotte offensive che siano avvenute nel rispetto delle regole del gioco, ma anche rispetto alle condotte che, pur trasgressive di simili regole, rimangano entro un «limite d’intensità» che non travalichi quelle misure preventive elaborate per consentire il corretto svolgimento dello sport [[8]].
3. Le ricostruzioni teoriche prospettate non hanno mancato di suscitare perplessità. In particolare, è stata esclusa la possibilità di invocare la scriminante di cui all’art. 50 c.p. rispetto ad eventi lesivi che comportino una lesione irreversibile dell’integrità fisica. Ciò non solo perché mancherebbe l’attualità del consenso [[9]] ma anche, e più incisivamente, per lo “sbarramento” posto dall’art. 5 c.c. che renderebbe inoperante la scriminante de qua tutte le volte in cui la lesione cagionata provochi una lesione permanente all’integrità fisica del soggetto inciso dalla condotta, stante l’indisponibilità del relativo bene [[10]].
Con riferimento all’art. 51 c.p., la possibilità di ricondurre le ipotesi de qua entro gli schemi di questa causa scriminante è stata contestata per l’eccessivo formalismo cui una simile soluzione sembrerebbe condurre: la scriminante dell’esercizio del diritto, infatti, non potrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di condotte violente commesse in violazione delle “regole del gioco” ovvero in contesti sportivi “non ufficiali”. Mancherebbe, in tale ipotesi, quella legittimazione all’esercizio di un diritto che, in presenza degli altri presupposti richiesti dalla disposizione, consentirebbe di escludere la rilevanza penale della condotta tenuta.
4. I prospettati limiti strutturali delle due cause di giustificazione hanno indotto la giurisprudenza a muoversi entro degli schemi interpretativi – in parte – differenti da quelli tradizionalmente proposti, ritenendo di poter inquadrare simili ipotesi nell’ambito di una causa di giustificazione non codificata, la c.d. scriminante sportiva, la quale eliderebbe l’antigiuridicità penale del fatto laddove questo rientri nei limiti del c.d. rischio consentito. Sarebbe, in quest’ottica, proprio il criterio del “rischio consentito”, quello “strumento” che consentirebbe di attuare un pieno ed attuale bilanciamento tra interessi contrapposti, idoneo a individuare l’esatto confine tra le esigenze di protezione dei beni giuridici minacciati e quelle, prima facie antitetiche, volte a garantire l’ esercizio di attività lecite.
Al riconoscimento della causa di giustificazione in questione, la Corte di legittimità è giunta sulla base di un percorso interpretativo ormai sufficientemente consolidato: partendo dall’assunto secondo cui «la competizione sportiva è non solo ammessa, ed anzi incoraggiata per gli effetti positivi che svolge sulle condizioni fisiche della popolazione, dalla legge dello stato» e che essa viene «ritenuta dalla coscienza sociale come una attività assai positiva per l’armonico sviluppo della intera comunità», si giunge alla conclusione secondo cui, nel comportamento dello sportivo che cagioni (involontariamente) un evento lesivo ad un avversario, manchi «quella antigiuridicità che legittima la pretesa punitiva dello Stato e la inflizione di una sanzione» [[11]].
Il fondamento della non punibilità dei comportamenti considerati sarebbe individuabile, seguendo l’orientamento in parola, attraverso un procedimento di interpretazione analogica delle cause di giustificazione legalmente riconosciute sulla base di una identità di ratio che caratterizzerebbe i fatti presi in considerazione, consistente nella necessità di garantire il principio di non contraddizione e nell’assenza di danno sociale (id est: di antigiuridicità) del fatto di chi (pur formalmente) realizzi gli estremi costitutivi tipici di un fatto astrattamente previsto come reato dall’ordinamento [[12]].
5. È proprio il ricorso a tale esimente non codificata, connessa alla delimitazione dei caratteri del rischio consentito, che ha consentito ai giudici di legittimità, nella sentenza in commento, di escludere l’antigiuridicità del fatto nella condotta dell’imputato il quale, nel corso di una partita di calcio, al fine di impedire l’avanzata dell’attaccante avversario verso la propria porta, colpiva (entrando in scivolata) la gamba del proprio avversario causandogli delle lesioni gravi, consistite nella frattura della tibia sinistra.
6. Senza entrare nel merito della legittimità del procedimento di interpretazione analogica, sia pur condotto in bonam partem [[13]], maggiore attenzione, per i fini che qui più interessano, merita il riferimento al concetto del c.d. rischio consentito.
Il criterio, pur largamente diffuso, pone infatti delle evidenti problematicità in ordine al suo momento pratico-applicativo, valevole a determinare l’area perimetrale entro cui possa dirsi concretamente operante e consentire di giungere ad una dichiarazione di irresponsabilità (penale) nel caso in cui l’agente abbia travalicato siffatto limite. Si tratta di stabilire, altrimenti detto, il c.d. “limite” del rischio consentito, la soglia il cui superamento determina una fuoruscita dalle “regole del gioco” per attingere alla sfera del penalmente rilevante.
6.1 Al riguardo, è la giurisprudenza civile che ha individuato dei criteri che, in astratto, possono essere validamente utilizzati per poter escludere ovvero ammettere l’antigiuridicità del fatto. In particolare, la Cassazione Civile [[14]] ha ritenuto doversi escludere l’antigiuridicità del fatto (e, quindi, obbligo di risarcimento) laddove si tratti di atto posto in essere in assenza di una volontà lesiva; nel caso in cui l’evento di danno sia conseguenza diretta della natura dell’attività sportiva presa in considerazione; nel caso in cui si abbia a che fare con condotte che pur trasgressive del regolamento di gioco, siano ad esso strettamente legate, distinguendo a seconda che l’evento dannoso sia avvenuto nel rispetto, o meno, del regolamento di gioco.
Per converso, viene riconosciuta l’antigiuridicità del fatto, escludendosi dunque che la condotta possa rientrare entro i limiti scriminanti della scriminante sportiva, quando si constati assenza dì collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva; quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso; quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell’attività.
6.2 La giurisprudenza penale, dal canto suo, una volta ricostruito il tema dei limiti del rischio consentito quale “questione di fatto” [[15]] non risolvibile empiricamente, ritiene necessario procedere ad una valutazione che, cogliendo le peculiarità dinamiche del singolo caso[16], consenta di valutare l’effettiva riferibilità della scriminante in questione alle caratteristiche del caso concreto.
Senza pretesa di esaustività, è possibile tuttavia scorgere almeno due linee direttrici nell’ambito degli orientamenti giurisprudenziali. Anzitutto, si tende ad escludere recisamente l’operatività della scriminante sportiva nel caso in cui l’avversario sia stato colpito dal soggetto agente «al di fuori del contesto di gioco» [[17]] nonché nel caso in cui, nell’ambito sportivo preso in considerazione, non fosse prevedibile la verificazione di lesioni superiori, per entità e gravità, a quelle normalmente accettabili in un tale contesto [[18]]; oppure, infine, nel caso in cui il comportamento violento fuoriesca dai confini di un «dovere di lealtà» che, in ogni ambito sportivo, dovrebbe contraddistinguere le parti in gioco [[19]].
Rispetto all’elaborazione giurisprudenziale qui succintamente delineata, la sentenza in commento non costituisce di certo un novum, risultando una applicazione, intimamente coerente con le premesse da cui muove, dei canoni ermeneutici già acquisiti nell’armamentario della giurisprudenza di legittimità. Il rilievo per cui l’azione dannosa si sia consumata in un contesto d’azione particolarmente intenso (gli ultimi minuti dell’incontro); il riferimento alla finalità dell’intenzione del soggetto agente, il cui intervento mirava a «impossessarsi regolarmente del pallone» per interrompere l’azione avversaria e non, dunque, ingiustificatamente rivolto all’avversario “in sé considerato”; la circostanza secondo cui il colpo alla gamba sia avvenuto per un erroneo calcolo nella tempistica dell’intervento, sono indici che consentono di stabilire, secondo il Supremo collegio, che il soggetto non abbia superato la soglia del rischio consentito.
7. A conclusione dell’analisi sin qui compiuta, vale la pena valorizzare un ulteriore indirizzo ermeneutico che rinviene il fondamento della liceità dell’attività sportiva in una “etero-integrazione” delle scriminanti dell’esercizio del diritto e del consenso della persona offesa. La prima, in particolare, opererebbe nell’ipotesi in cui il danno cagionato sia avvenuto nel pieno rispetto delle regole del gioco. La seconda, potrebbe mantenere una propria validità euristica nei contesti sportivi non regolamentati: emblematica, in tal senso, la possibilità di scriminare un fatto (pur oggettivamente esistente) di lesione che sia avvenuto nel corso di un “contesto amichevole” (es. una partita di calcetto tra amici, al parco). Per queste ultime ipotesi, il requisito-indice in grado di segnare la liceità o la rilevanza penale del fatto, potrebbe essere il c.d. nesso funzionale del comportamento tenuto rispetto alle caratteristiche ed al contesto di gioco.
Detto altrimenti, il nesso funzionale tra la condotta lesiva e l’“azione di gioco” consentirebbe di ritenere penalmente rilevante la condotta di chi abbia agito per finalità estranee alla competizione e con una violenza incompatibile con le caratteristiche del gioco. Viceversa, laddove manchi nel soggetto agente la volontà di ledere e la sua condotta sia avvenuta “a gioco attivo”, potrebbe ragionevolmente escludersi la rilevanza penale del fatto [[20]].
[1] Sulla nozione di “colpa professionale” si veda, per tutti, F. Mantovani, voce Colpa, in Dig. disc. pen., 1988, vol. II, p. 301 e ss., secondo il quale con tale espressione si avrebbe riferimento alle ipotesi di «attività giuridicamente autorizzate perché socialmente utili, pur se per natura rischiose».
[2] È questa la nota tesi di B. Petrocelli, L’illiceità penale della violenza sportiva, in Saggi di diritto penale, Cedam, 1952, p. 213 e ss.
[3] Sul punto, ancora attuali sono le osservazioni di R. Riz, Il consenso dell’avente diritto, Cedam, 1978, spec. pp. 250 e ss. Nella manualistica, si veda A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2003, p. 433 e ss.
[4] Per un parziale accoglimento di tale ricostruzione in giurisprudenza, cfr. Cass., Sez. V pen., 30 aprile 1992, n. 9627, in Cass. pen., 1993, p. 1726, con nota di Melillo, Violenza sportiva: condizioni per la rilevanza penale del fatto.
[5] Per tali profili, cfr., per tutti, R. Rampioni, voce Delitto sportivo, in Enc. giur. Treccani, 1988, vol. X, p. 4 e ss.; Id., Sul c.d. “delitto sportivo”: limiti di applicazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1975, p. 660 e ss..
[6] Cfr., in tal senso, M. Amisano, Le esimenti non codificate. Profili di liceità materiale, Giappichelli, 2003. Analogamente, anche G. De Francesco, La violenza sportiva e i suoi limiti scriminanti, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, p. 597 e ss.
[7] F. Mantovani, voce Esercizio del diritto (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XV, 1966,p. 664 e ss.
[8] Così G. De Francesco, La violenza sportiva, cit., p. 593 e ss.
[9] In tal modo, si finisce con l’escludere rilevanza, per le ipotesi qui prese in considerazione, al c.d. consenso presunto. Si veda, al riguardo, Cass., Sez. V pen., 02 dicembre 1999, in Riv. dir. sport., 2000, p. 141.
[10] Sul punto, G. Marra, La cassazione precisa i limiti scriminanti dell’attività sportiva, in Cass. pen., 2010, p. 938 e ss.
[11] In questo senso, Cass., Sez. V pen., 2 febbraio 2000, n. 1951, in Foro it., vol. II, c. 320 con nota di C. Russo, Lesioni sportive, tra illecito sportivo e responsabilità penale.
[12] Cass., Sez. IV, 12 novembre 1999, n. 2765, in Riv. dir. sport., 2000, p. 142.
[13] Come ampiamente noto, favorevole all’interpretazione analogica delle cause di giustificazione è F. Antolisei, Diritto penale. Parte generale, a cura di C.F. Grosso, Giuffrè, 2003, p. 247 e ss. Contra, per tutti, M. Gallo, Diritto penale italiano. Appunti di parte generale, Giappichelli, 2013, p.
[14] Cass., Sez. IV civ., 8 agosto 2002, n. 12012, in Dejure.
[15] In tal senso, si veda Cass., Sez. V pen., 8 ottobre 1992, n. 9627, in Dejure.
[16] «Un conto trattarsi di attività sportiva soggetta a scontri fisici abituali, altro conto che gli scontri in parola siano più rari, meno determinanti ed intensi (basti pensare la differenza che corre tra il rugby e la pallacanestro, pur trattandosi sempre di discipline che prevedono il contatto violento). Un conto è trattarsi di una competizione decisiva per le sorti dell’annata agonistica (si pensi a partite di calcio determinanti per la promozione di categoria o per la vincita dello scudetto di serie A, o, al contrario, importanti per scongiurare la retrocessione), oppure priva di un tale connotato (dalla gara amichevole, all’allenamento, fino a giungere a partite da dopolavoro)». In questi termini si esprime la sentenza annotata.
[17] Così, di recente, Cass., Sez. V pen., 24 giugno 2015, n. 39805, in Diritto & Giustizia, 2015, fasc.35, pag. 7.
[18] Cass., Sez. V pen., 04 luglio 2008, n. 44306, in Dejure.
[19] Da ultimo, Cass., sez. IV pen., 27 marzo 2001, n. 24942, in Riv. pen., 2001, p. 727.
[20] Così, Cass., Sez. V pen., 4 luglio 2011, n. 42114, in Dejure