ARTICOLICONTRIBUTIDIRITTO PENALETesi di laurea

Il divieto convenzionale di tortura e di trattamenti inumani e degradanti nell’ordinamento penale nazionale (Tesi di laurea)

Prof. Relatore: Alberto Cadoppi

Ateneo: Università degli studi di Parma

Anno accademico: 2013/2014

La tutela dei diritti fondamentali all’interno dello spazio europeo si presenta oggi nelle vesti di un sistema ‘multilivello’ in cui alla protezione garantita dagli ordinamenti nazionali si affiancano strumenti di carattere sovranazionale ed internazionale. Il processo di interazione tra Stati membri, Unione Europea e Consiglio d’Europa, iniziato negli anni cinquanta e sviluppatosi nel tempo, mira ad offrire il più alto standard di tutela di quei diritti universalmente riconosciuti come fondamentali.

In questo articolato contesto si colloca il presente scritto che ruota attorno al tema della ”tortura” ancora sorprendentemente attuale. Sarebbe eccessivamente ambizioso pensare che poche righe possano contribuire al superamento di quelle convinzioni radicate nella coscienza sociale secondo cui questo è un problema che non ci riguarda, che non interessa né l’Europa né Paesi civilizzati e democratici come l’Italia. Esistono infatti realtà tanto inumane e degradanti da essere state più volte qualificate come tortura dai diversi organismi internazionali di tutela dei diritti umani.
Nell’ambito di un processo di “europeizzazione” del diritto, che interessa fortemente anche la scienza penalistica, le prime riflessioni sono dedicate al complesso sistema di tutela apprestato dalla Convenzione europea, il cui contenuto “scarno ed essenziale” deve essere letto alla luce della ricca giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Fondamentale è anzitutto capire come i principi sanciti nella Convenzione e le pronunce della Corte producano effetti nell’ordinamento nazionale, vincolando i diversi attori istituzionali. In secondo luogo, è opportuno ripercorrere il dibattito dottrinale attraverso il quale si è giunti ad individuare nell’art. 117 comma 1 Cost. il “veicolo” che permette alla CEDU di integrarsi nella gerarchia delle fonti interne, imponendo agli Stati il rispetto degli obblighi internazionalmente assunti attraverso la ratifica della Convenzione medesima.

Il cuore di questo scritto è rappresentato dallo studio della tortura utilizzata, sin da tempi remoti, come strumento per estorcere confessioni e giungere alla verità. Gli illuministi del Settecento, primo tra tutti Cesare Beccaria, hanno messo il loro sapere a servizio della legalità e della tutela dei diritti umani, evidenziando, con valide argomentazioni, la totale inefficacia della tortura e proponendone l’abolizione. Moniti che si sono rivelati incapaci di eliminare questa barbara pratica in maniera definitiva.

A confermare la persistenza di condotte disumane e il rilievo che esse hanno assunto nel panorama internazionale, la stipulazione di molteplici accordi in materia di diritti umani: la Dichiarazione universale del 1948, la Convenzione ONU contro la tortura del 1984 e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 sanciscono tutte in termini assoluti il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Tale divieto ha assunto valore di jus cogens poiché tutela valori condivisi dall’intera comunità internazionale.

Tra le convenzioni che riconoscono e tutelano il diritto a non subire tortura e altri maltrattamenti, l’attenzione viene concentrata sul sistema di garanzie fornito dalla Convenzione europea, “costola” della Costituzione. La disposizione di riferimento è l’art. 3 CEDU, le cui diverse componenti devono essere lette considerando il ruolo creativo della Corte di Strasburgo che opera, in relazione al caso concreto, bilanciamenti tra esigenze di tutela diverse e contrastanti e, grazie alla sua interpretazione “flessibile”, trasforma il diritto convenzionale in diritto vivente.

In un tale contesto, la questione che si pone è se l’Italia, in quanto parte di questa e altre convenzioni, ha recepito la “cultura dei diritti umani”? Sebbene il nostro Paese sia vincolato al rispetto degli obblighi, negativi e positivi, sostanziali e procedurali, che discendono dalla CEDU, la prassi dimostra che non è esente da episodi lesivi della dignità umana. Il problema è particolarmente drammatico se si pensa che l’assenza nel codice penale nazionale di un reato di tortura rischia di lasciare impuniti i responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. È opportuno dunque indagare i motivi dell’inadempimento di tale obbligo di criminalizzazione e individuare le prospettive di riforma de iure condendo per l’adeguamento dell’ordinamento nazionale agli standard europei.
L’ultima parte è rivolta all’individuazione delle “nuove” forme di tortura che affliggono la società odierna. Ancora una volta è l’interpretazione evolutiva della Corte europea a permettere un’applicazione sempre attuale del testo convenzionale. A sollevare problemi di compatibilità con il divieto di cui all’art. 3 CEDU è la sanzione penale e le sue modalità di esecuzione. Possibili contrasti si intravedono con riferimento alla disciplina dell’ergastolo, pena detentiva per eccellenza, ed in particolare nella variante di ergastolo ostativo disciplinato all’art. 4 bis ord. penit., e ancora questioni sorgono sull’ammissibilità del regime di detenzione speciale del ‘carcere duro’ del 41bis ord. penit., nato per contrastare la criminalità organizzata in Italia.
Sul fronte delle condizioni di detenzione, perché una pena legittima non sfoci in trattamento disumano devono essere rispettati una serie di parametri che, valutati singolarmente o complessivamente, possono umiliare l’individuo e rendere la detenzione contraria ai principi convenzionali e costituzionali. È imprescindibile il riferimento al fenomeno del sovraffollamento degli istituti penitenziari che interessa da vicino anche il nostro Paese: l’elevato tasso di congestionamento delle carceri italiane, rilevato da statistiche europee e nazionali, evidenzia il carattere strutturale e sistemico del problema. Lo testimoniano le molteplici condanne pronunciate da Strasburgo che impongono alle autorità statali di individuare nel più breve tempo possibile rimedi adeguati.

Infine, si accenna alla posizione e alla tutela dello straniero all’interno del sistema convenzionale, esaminando i casi in cui egli corre il rischio di subire tortura o trattamenti inumani e degradanti. A tale proposito rilevano innanzitutto le c.d. “violazioni indirette” dell’art. 3 CEDU come conseguenza di procedure di espulsione, respingimenti in alto mare dal territorio di uno Stato parte, laddove vi sia il pericolo reale che la lesione dei diritti umani sia perpetrata ad opera dello Stato di destinazione. In secondo luogo, come possibile causa di violazioni dell’art. 3 della Convenzione, rilevano anche le terribili condizioni di “detenzione amministrativa” a cui gli stranieri e i richiedenti asilo sono sottoposti nei Centri di identificazione ed espulsione (CIE), in attesa dell’esecuzione di un procedimento di allontanamento.

L’art. 3 della Convenzione europea, che non opera in un unico settore ma è dotato di un ampio raggio d’azione, sancisce dunque uno dei principi fondamentali su cui si fonda la comunità d’intenti degli Stati parte del Consiglio d’Europa e la sua inosservanza rappresenta un atto di violazione dell’ordine pubblico europeo.